Ottaviano Taddei

Il palco per lo spettacolo di stasera, una rivisitazione de Il Cappotto di Gogol, è stato allestito in una piazza agli inizi del paese di Sant’omero. Un grande slargo di forma vagamente triangolare che in pianta ricorda un’ala stilizzata, chiuso da un lato da un semicerchio e dall’altro da una frangia ondulata che si riverbera in un disegno a terra di onde.
Sul palco si stanno preparando gli attori della Compagnia delle Formiche. Provano le scene principali, prendono confidenza con entrare e uscite, gli spazi delle quinte, i saluti finali e gli inchini. Tutto avviene sotto lo sguardo attento di Ottaviano. Calcola i tempi, sincronizza le musiche, guida i passi ancora incerti sulla scena. Gli ultimi ritocchi al tutto e si passa a indossare gli abiti di scena.
Col buio della sera si accendono i riflettori e la piazza si riempie di spettatori. Sono gli abitanti del paese e di quelli vicini, un pubblico che segue con attenzione, rispetto e affetto questo insolito festival teatrale a cui è stato dato il nome di Teatri paralleli.
Durante lo spettacolo non c’è un rumore dal pubblico, sono tutti attenti e partecipi di quello che avviene sulla scena. Mi verrebbe da dire, se non fosse un modo di dire logorato, che sono tutti in “religioso silenzio”. Forse è l’effetto dei neuroni-specchio, quel meccanismo per cui inconsapevolemente ripetiamo i gesti di chi osserviamo, che ci porta a sentire, qui più che altrove, la tensione degli attori, quell’empatia incontrollabile che ci fa temere l’incertezza della parola come se fossimo noi sul palco. O forse è un senso di comunione e unione che si crea dall’essere lì a partecipare a un evento in cui trovano spazio tutti membri di una comunità, senza distinzione di età, professione o fortuna.
Lo spettacolo termina con un toccante monologo, in realtà tratto da un altro de I racconti di Pietroburgo di Gogol, Il ritratto.
Parla di arte, di vocazione e lavoro. Una sorta di viatico che chiude la serata e, per noi, questo lungo e bellissimo ciclo di interviste.

‘Ti aspettavo, figlio mio, diss’egli quando mi accostai per averne la benedizione. ‘Ti attende il cammino per il quale d’ora innanzi procederà la tua vita. Il tuo cammino è pulito, non deviare da esso. Tu hai talento; il talento è un dono prezioso di Dio, non ucciderlo. Esplora, studia ogni cosa, assoggetta al pennello tutto ciò che vedi, ma in tutto sappi trovare l’idea interiore e in primo luogo sforzati di comprendere il grande mistero della creazione. Beato l’eletto che lo possiede. Per lui non v’è soggetto spregevole nella natura. Nell’insignificante, l’artista creatore è grande come nell’eccelso; la cosa più bassa per lui non è bassa, perché invisibilmente trapela in essa l’anima meravigliosa di chi crea, e la cosa bassa viene così sublimemente espressa, perché passa attraverso il purgatorio della sua anima.
Nell’arte, è racchiusa un’allusione al divino, al paradiso celeste, e già per questo essa è più alta d’ogni altra cosa. E quanto la quiete solenne è più alta d’ogni agitazione mondana, la creazione della distruzione, l’angelo con la sola pura innocenza della sua anima luminosa di tutte le innumerevoli forze e le orgogliose passioni di Satana, tanto una sublime creazione dell’arte è più alta d’ogni altra cosa che esista al mondo.
Sacrificale tutto e amala con passione, non con la passione che alita terrestre concupiscenza, ma con la quieta passione celeste; senza di essa l’uomo non ha il potere di sollevarsi da terra e non può emettere i mirabili suoni che danno la pace. Poiché è per acquietare e pacificare che scende nel mondo la sublime opera d’arte. Essa non spinge l’anima all’insoddisfazione, ma con risonante preghiera eternamente tende a Dio. Ma vi sono momenti, oscuri momenti… ‘

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Ci descrivi brevemente in cosa consiste il tuo lavoro?
Faccio una piccola premessa. Credo nell’87, ho fatto un corso di formazione regionale per “Operatore socio-culturale”. Sintetizza molto bene come mi sento in generale anche se poi negli anni il mio binario è cambiato, mi sono spostato più verso il teatro. Mi sento in qualche maniera uno che lavora a livello sociale e a livello culturale e credo che le due cose si intersechino continuamente.

Quanti anni avevi nell’87?
20 anni, avevo appena finito il liceo. Il mio lavoro nel sociale è iniziato in queglia anni ed è stato sempre accompagnato dalla passione per il teatro. Ricordo con grande affetto le prime esperienze parrocchiali: preparavamo in pochi giorni parodie di opere anche molto importanti, come I promessi sposi, oppure impersonavamo personaggi del paese. Il mio cavallo di battaglia era una bidella della scuola media. Da questo inizio bizzarro, le cose si sono sviluppate da sé: ho sempre continuato sia a lavorare nel sociale sia a fare teatro amatoriale. Poi, sono stato un periodo abbastanza breve a Bologna, dove ho lavorato come educatore con i bambini a rischio. Una volta tornato, parlo del ’93-94, ho avuto la possibilità di conoscere delle persone con le quali ho realizzato Horizon, un progetto comunitario della durata di un anno.

In cosa consisteva questo progetto?
Era orientato alla formazione di operatori e alla costituzione di nuove cooperative sociali; l’intervento era rivolto a ragazzi diversamente abili in età post-scolare. Nel frattempo mi sono diplomato assistente sociale, una cosa stranissima che non c’entra niente con quello che faccio, ed è nata la cooperativa sociale La formica. In quegli anni non c’era niente né in Val Vibrata, né in Abruzzo a livello di centri diurni socio-riabilitativi, così li chiamavamo giustamente all’epoca; ancora oggi per me ha più senso chiamarli così piuttosto che “socio-educativi”, termine che non so veramente cosa significhi. “Riabilitazione sociale” ha probabilmente un senso diverso, più efficace, anche se poi i termini lasciano il tempo che trovano.

Nel frattempo hai continuato a coltivare la tua passione per il teatro?
Anni prima a Nereto avevamo fondato una compagnia teatrale amatoriale, si chiamava Tra di noi, e facevamo opere di un certo livello – Il tartufo, qualcosa di De Filippo –, insomma non scherzavamo, lo facevamo abbastanza seriamente anche se sempre da amatori. Quando mi sono trasferito a Bologna, ho abbandonato momentaneamente il teatro, anche se ho cercato di trovare qualcosa anche lì. Appena tornato, ho ripreso il teatro con la vecchia compagnia che, nel frattempo, si era trasformata. Mettemmo in scena Non ti pago di De Filippo, in dialetto neretese, che ebbe un successo strepitoso, perché riuscimmo a unire la versione teatrale di Eduardo con quella cinematografica. Dal punto di vista teatrale non era niente di eccezionale, eppure fummo innovativi in quegli anni, almeno nell’operazione che riuscimmo a realizzare.

Quand’è che impegno sociale e passione teatrale si sono uniti?
Quando il progetto della cooperativa sociale La formica ha preso sempre più forza. All’inizio non c’era niente e andavo in giro con la mia cartellina a spiegare il progetto ai sindaci della Val Vibrata che non sempre stavano ad ascoltare. Dopo questo primo periodo, le cose a livello politico cambiarono in meglio: in Vibrata subentrarono nuove generazioni di rappresentanti e molte donne: questo significò più apertura e attenzione alle problematiche sociali, si trattò davvero di una piccola rivoluzione. Così è iniziata la vera attività e nel centro si sono aggiunte tante attività tra cui quella teatrale. Mi sembrava la cosa più naturale, un’occasione da non perdere, anche perché vedevo che il gioco teatrale interessava molto ai ragazzi, al punto da far nascere la compagnia Teatro delle formiche. Nel ’99 nasce anche Terrateatro, una parte fondamentale della mia esperienza artistica e personale. C’era l’intenzione di dare un taglio diverso rispetto al passato, di superare quell’atteggiamento amatoriale e creare qualcosa di più importante. Terrateatro e Teatro delle formiche hanno cominciato a percorrere strade abbastanza parallele, fino a quando nel 2001, in occasione di uno spettacolo della trilogia ispirata ad Aspettando Godot, i due gruppi si sono uniti e integrati. Il lavoro si intitolava En Attendant, spettacolo molto particolare, a pianta centrale, credo anche abbastanza audace.

Con le due compagnie quanti spettacoli avete messo in scena?
Con Terrateatro abbiamo messo in scena tredici spettacoli, col Teatro delle formiche nove; da sempre mi sono posto l’imperativo di fare almeno uno spettacolo l’anno. In realtà siamo quasi costretti perché, sia Terrateatro sia la cooperativa sociale La Formica, realizzano e organizzano festival teatrali: quello di Terrateatro a Giulianova è Terre di Teatri – ma in passato si è chiamato Rievocazioni e prima ancora Isole galleggianti –, quello della Formica è Teatri paralleli che per il secondo anno si tiene a Sant’Omero. Come padroni di casa e organizzatori dobbiamo esserci, per cui siamo in qualche modo costretti a produrre spettacoli, anche quando i soldi non ci sono, ovvero la maggior parte delle volte.

C’è questa strana combinazione in te: ti senti un operatore sociale prestato al teatro o un “teatrante” prestato al sociale?
Non so rispondere, per me è un conflitto aperto.

Perché parli di un conflitto? Pensavo fossero ambiti che si arricchiscono a vicenda…
È un conflitto perché vorrei lasciare sia l’uno che l’altro ogni giorno. Sono esperienze straordinarie, piene, intense emotivamente e mentalmente, che però ti consumano. Il conflitto, per me un vero paradosso, nasce da questa passione che ti riempie e allo stesso tempo ti svuota. Se sono prestato al sociale piuttosto che al teatro non lo so dire. Se dovessi pensarla cronologicamente direi che sono un teatrante prestato al sociale, però probabilmente mi sbaglio. In ogni caso è questo paradosso che mi fa andare avanti. Poi, credo che non lascerò mai il teatro nelle sue varie forme, è uno strumento bellissimo per comunicare con gli altri.

Qual è il momento in cui hai pensato che questa poteva essere la tua strada?
Se intendi il Teatro Sociale, è stato con il terzo spettacolo della trilogia di Aspettando Godot, Lucky sogna, fatto dai ragazzi del Teatro delle Formiche. Aveva una sua compiutezza, una drammaturgia, una regia probabilmente più matura, i ragazzi erano entrati nel lavoro teatrale, quindi anche il livello interpretativo era diventato importante, dignitoso. Abbiamo avuto la possibilità di presentare il lavoro anche in abiti importanti, cito ad esempio il Festival di Montone, importante all’epoca per il teatro di ricerca perché ospitava grandi artisti che provenivano da tutta Europa. Lì mi sono reso conto della potenza del teatro, e quindi della possibilità data a persone ancora oggi al margine, ghettizzate, nascoste, deboli, fragili, di non essere solo attori sulla scena. Nel teatro sociale un attore non interpreta il personaggio, è se stesso. Prende in prestito le parole del personaggio ma è assolutamente se stesso. Stefania (ndr. l’attrice che si è esibita stasera) durante il monologo della madre, quello che io chiamo Ti aspettavo figlio mio, si mette a piangere per davvero perché è se stessa. Magari il pianto è dovuto al fatto che nella recitazione ha sbagliato, però è lei. Un attore non farebbe mai così, un attore speciale sì. In quel momento c’è la verità. Queste due strade piano piano si sono incontrate, in qualche maniera hanno creato anche dentro di me un cortocircuito che mi ha fatto comprendere fino in fondo quale arma micidiale sia il teatro. Come teatrante, io non riesco a far esplodere questa miccia con la stessa semplicità con cui accade col teatro sociale.
Detto questo, il teatro ha uno straordinario valore anche in altri ambiti, per esempio nella scuola, con i bambini: imparano le prime regole anche a livello di rapporto con gli altri. Ci sono molti ambiti in cui il teatro ha una forza dirompente, ma nel sociale ha qualcosa in più perché riesci a vedere la verità. Grotowski ha parlato sempre di attore santo, di attore vero, che entra nel personaggio fin nelle viscere, fin negli aspetti più interni, biologici. È comunque un attore che deve fare un lavoro per arrivare a quel livello, un allenamento lunghissimo su se stesso. L’attore con disabilità non deve fare nessuno sforzo. L’aspirazione massima per un attore sulla scena è essere il più vero possibile, ma questo non è concepibile fino in fondo, perché se è vero il corpo dell’attore sul palcoscenico, la storia non è la sua, è finzione.

Hai questo raro privilegio di lavorare in due ambiti diversi del teatro: cosa può imparare un attore con abilità “normali” da uno con abilità “diverse”, e viceversa?
Una cosa che gli attori diversamente abili possono insegnare a quelli normalmente abili è il rigore. L’attore con disabilità ha una serietà sul lavoro che spesso gli altri non hanno. Il momento della prova per l’attore disabile è un momento nel quale afferma se stesso, nient’altro e nessun altro, non gli importa della storia, del testo, dell’opera, è se stesso. Ha la possibilità di essere protagonista anche di fronte ai suoi 3-5 compagni di lavoro, o di fronte al regista, che diventa lì ancora più privilegiato, rispetto a una situazione “normale”.
Cosa possono imparare gli attori disabili dagli attori abili? Essere un po’ più spregiudicati e sfacciati, anche se è impossibile; sfacciati nel senso che sono talmente puri da non “sapersi vendere”. Anche loro soffrono di protagonismo, però anche in quello c’è un livello che noi probabilmente non possiamo vedere e che è difficile anche da interpretare fino in fondo. L’attore disabile che si mette in mostra dopo lo spettacolo, che fa la star, non finge, è così. L’attore abile che fa la star, si dà un tono, indossa la sua maschera sociale. Il mio, ovviamente, è un discorso provocatorio. Chi percorre questa strada parallela, sa che le cose importanti sono altre.

Nel teatro sociale non c’è un paradosso crudele? La maschera indossata sul palco, quella che l’attore abile si toglie quando torna in camerino, non è finta, non è cerone che si toglie con una salviettina. La purezza che vediamo sui volti di questi attori diversamente abili è quella che si portano addosso come una condanna nella vita quotidiana. Non possono cambiare maschera, come facciamo tutti, a seconda delle situazioni o dei luoghi.
L’incapacità non è dell’attore disabile, ma la nostra. Ribaltiamo il concetto: siamo noi ad aver bisogno di filtri, siamo noi che non riusciamo a rapportarci con gli altri nella maniera più semplice possibile, schietta, lampante, chiara. Non so se essere così significhi portarsi dentro una sofferenza, come dici tu, perenne. Il teatro è un mezzo per affermarsi socialmente, per farsi capire di più dagli altri, comunicare se stessi in modo sano. Teatri paralleli ne è un evidente esempio.

In queste pratiche c’è anche un aspetto terapeutico?
Credo che il teatro sia terapeutico per natura, per tutti. Ho un po’ di fastidio a parlare di arte-terapia, oggi molto di moda. È come scoprire quello che sappiamo già. Tutti noi, facendo teatro, pittura, musica, stiamo meglio. Parlare di teatro-terapia, dramma-terapia, arte-terapia in generale vuole affermare una cosa ovvia.

Forse è un modo per asservire queste attività a una visione funzionalista all’interno della quale è più semplice riconoscere il valore, l’utilità, e quindi il finanziamento, di un’attività rispetto a un altra?
Magari fosse così! Il rapporto con gli enti, con le istituzioni in generale, non è semplice perché il teatro, in qualche maniera, rompe degli schemi. L’istituzione può vedere in te addirittura un pericolo, anche semplicemente perché sei una persona libera, che non scende facilmente a compromessi, o che non può essere ricondotto all’interno di un disegno più ampio.

Il teatro insegna a essere liberi?
Con il teatro si ha la possibilità di cambiare un frammento, seppur piccolo, del mondo, di trasformarlo, per lo meno per il tempo dello spettacolo e nello spazio del palcoscenico. Forse, c’è anche la pretesa di poter cambiare qualcuno.

Questo scambio di azione-reazione non è alla base del teatro?
Il teatro è proprio quel rapporto tra attore e spettatore e nient’altro, nemmeno la storia, nemmeno la letteratura teatrale serve fino in fondo. Da attore hai la presunzione di cambiare qualcosa nello spettatore, allo stesso momento lo spettatore vuole sentirsi cambiato da quello che accade sulla scena. C’è questa reciprocità, c’è un consenso tacito: lo spettatore viene ad ammirare ed applaudire l’attore, mentre l’ attore ha l’intenzione esplicita o meno di scombussolare qualcosa nello spettatore.
Questo desiderio, secondo me anche un po’ morboso, ti predispone a qualcosa di nuovo, c’è un’apertura verso esperienze ignote.

Tra i progetti che hai realizzato, qual è quello cui sei più legato?

Teatri paralleli perché è un figlio zoppo, disabile appunto, quello a cui forse tengo più particolarmente perché so che lo devo curare, coccolare, proteggere. Però è evidente che Terre di Teatri, il festival che facciamo in autunno come compagnia Terrateatro a Giulianova da diversi anni, ha per me un valore assolutamente politico, nel senso che non è solo un progetto teatrale e culturale, è qualcosa che va oltre. Tengo a tutte e due le cose, ma soprattutto alle persone con cui condivido questi progetti, come Cristina Cartone, con la quale conduciamo una battaglia che probabilmente non porterà a niente se non al nostro disfacimento. Ma, come guerrieri sognanti, avanziamo consapevoli del pericolo. Mentre Teatri paralleli è una ordigno sociale, pronta a scoppiare e arrivare al cuore della gente, in Terre di Teatri siamo noi a rischiare in prima persona di cadere sotto il fuoco dei critici e delle istituzioni. Uno ha una dimensione più sociale, l’altro più politica. Con uno punti a cambiare l’animo delle persone, con l’altro la società.
Quello che ho imparato in questi anni è che le due cose possono funzionare bene insieme, perché puoi pensare di cambiare la società solo trasformando l’anima delle persone. Ma è una lotta senza confini e senza risparmio di forze.

Ti senti un Don Chisciotte in questa tua lotta?
I mulini a vento non sono i nemici, sono solo elementi mossi dal vento. Non so se sono un donchisciotte, non mi ci sento, o forse semplicemente non potrei fare altro. Penso che, in qualche modo, il teatro mi abbia salvato…

Da cosa?
Magari da una difficoltà a confrontarmi con gli altri nel quotidiano. Il teatro mi ha rinnovato come persona: ero molto, molto timido, e chiuso. Lo sono tuttora, credo, però il teatro mi ha dato la possibilità di interagire con gli altri in maniera del tutto nuova. Mi ha aiutato ad aprirmi, a dire le cose che volevo dire. Probabilmente sono partito da una condizione molto egoistica e quindi non posso dire di essere un donchisciotte. Forse, più che combattere i mulini a vento vorrei sentire il vento.

Mi ha incuriosito molto la scelta de Il Cappotto di Gogol per la vostra rappresentazione: è un testo che nasconde dietro il velo della comicità un baratro esistenziale di fronte al quale siamo indifesi. Nella vostra messa in scena, il cappotto come è interpretato rispetto all’idea di teatro sociale, rispetto alle persone che hanno calcato la scena stasera?
Per Gogol il cappotto nuovo di Akakij è una nuova vita, un’occasione di emancipazione. L’impiegato Akakij, deriso da tutti, anche dalla sua governante, vede in quell’abito l’occasione per affrancarsi. Probabilmente è ancora molto attuale: oggi c’è la macchina nuova, il cellulare megagalattico, l’ultimo gadget tecnologico, un modo per affermarsi socialmente. Per Akakij, che è una persona ingenua, pura, il cappotto è qualcosa di più. Gogol lo definisce “una moglie”, come se Akakij si fosse sposato, come se accanto a lui questa persona nuova, che in realtà è un cappotto, lo avesse rinnovato completamente. Io ci vedo qualcosa di più interpretato dai nostri ragazzi, dagli attori disabili, ci vedo una spoliazione: mi tolgo il cappotto, mi faccio derubare del cappotto nuovo, del cappotto che qualcuno mi ha confezionato. Nel racconto originale Akakij, subito dopo il furto del nuovo abito è costretto a riprendersi quello vecchio e, facendolo, è come se si riprendesse l’anima vecchia, la propria precedente condizione. È una sconfitta definitiva che lo farà soffrire fino a ucciderlo di crepacuore. Qui abbiamo in qualche maniera ribaltato la cosa. Il cappotto nuovo è un involucro di cui spogliarsi per rimanere alla vista di tutti, così come si è.

Da parte dei tuoi attori, c’è la consapevolezza di questi significati?
Ci si potrebbe domandare se abbiano semplicemente e meccanicamente imparato la parte, ma la verità è che noi facciamo un lavoro preparatorio piuttosto lungo. Abbiamo visionato più e più volte il film di Lattuada con Renato Rascel. Giancarlo, che interpreta il personaggio importante, mi faceva domande in continuazione. Hanno scritto, disegnato, fatto la lettura del testo tutti insieme, estrapolato le parti, sottolineato le cose che secondo gli attori erano più importanti di altre. È un lavoro vero e proprio, così come si fa in qualsiasi compagnia. C’è un atteggiamento di ricerca, per cui non è il regista che impone il suo punto di vista ma accoglie quello degli altri e lo rielabora.

Quando cerchi ispirazione cosa fai?
Rispetto all’opera sono spesso delle reminiscenze, cose che stanno lì e affiorano se non quando devono tornare su. In generale trovo ispirazione nel lavoro. Mi affido al lavoro completamente, e ciecamente, nel senso che quasi mai programmo ciò che farò durante le prove, se non qualcosa, qualche volta una visione, uno schema, poi il resto nasce da sé.

Per conoscerti meglio, ci dici quali sono un po’ i tuoi gusti, riguardo a:
– Siti web.

Frequento internet malamente, qualche volta per il lavoro teatrale ho salvato delle pagine che poi non ho utilizzato più. Tra i preferiti ho un sito che parla delle razze dei gatti, anche se non ho gatti e forse non mi piacciono nemmeno.

– Riviste.
Non compro più giornali e riviste, sono stufo, se non qualcosa come Catarsi, teatro delle diversità, una bellissima rivista che purtroppo sta vivendo momenti di grande difficoltà.

– Libri, quelli della tua vita e quelli che hai ora sul comodino.
Il libro della mia vita è Cent’anni di solitudine. Sul comodino in questo momento ho un dizionario dei simboli, però fino a qualche giorno fa, e lo dovrò riprendere, c’era Vivere per raccontarla sempre di Garcia Marquez, per me uno dei geni del Novecento.

– Tv.
Cerco di seguire molto i telegiornali e le trasmissioni di approfondimento per fustigarmi e per avere un po’ un quadro della realtà. Mi piacerebbe tanto rivedere i varietà di una volta.

– Cinema.
Il mio film preferito è Il Dottor Zivago di David Lean. Ma adoro Nanni Moretti, Kusturica e Parajanov.

L’ultimo che hai visto?
Ho rivisto Titus, di Julie Taymor, tratto da Shakespeare e con la bellissima Jessica Lange.

– Autore teatrale.
Beckett, per via del vuoto.

– Città in cui vivresti.
Probabilmente non c’è, ma se dovessi scegliere una città direi New York. Per me sarebbe una follia, lo è già il solo fatto di dirlo; se mi sentissero i miei amici mi deriderebbero a vita, perché non sono mai stato attratto dagli Stati Uniti d’America. È un mio limite interno che sarebbe bello affrontare… Se, invece, dovessi scegliere in base ai miei desideri e alle mie esigenze, direi che mi piacerebbe molto vivere in campagna.

– Musica.
Per tantissimo tempo ho ascoltato i cantautori italiani e qualche francese, li adoro, però amo moltissimo la musica popolare, e non solo italiana. Non sempre riesco a trovarla, non è semplice, almeno quella di un certo rilievo culturale. Poi, per andare sul sicuro, ho sempre con me la musica classica.

Per fare il tuo lavoro quali qualità servono e, rispetto a queste, quali modestamente pensi di avere e quali vorresti?
La qualità per me fondamentale è riuscire ad avere un rapporto buono con le persone con cui lavoro sia nel teatro, sia nel sociale, dove è un presupposto basilare. Non so se ci riesco, forse se ho una qualità è proprio questa aspirazione, di riuscire a stabilire un rapporto del tutto sincero con le persone con cui condivido vita e lavoro.

E una qualità che ti manca?
Dovrei mollare la mia permalosità, essere un po’ più leggero nelle cose, recuperare l’idea del gioco, non solo nel teatro ma in generale.

Nel tuo futuro, cosa ti piacerebbe trovare?
Una moglie… un figlio? Non lo so… Mi piacerebbe trovare un equilibrio.

Invece una preoccupazione?
La mia preoccupazione maggiore è legata all’età che avanza, e quindi riguarda le cose che potrebbero non andare bene nella vita, la salute, cose molto semplici e scontate. E poi ho il terrore per quello che potrebbe accadere al nostro pianeta, e quindi alle generazioni che verranno.

Ultima domanda: facci il nome di persone che reputi comiche, creative e guerriere.
Ti direi mio padre, muratore, per una questione affettiva e non solo, ma non ti conviene, non risponderebbe a nessuna delle tue domande. Ti dico Alex Ricci che abita tra Atri e Giulianova ed è un grandissimo musicista, blues soprattutto. Nell’ambito teatrale le persone con cui collaboriamo io e Cristina sono tutte meritevoli di una profonda attenzione. Se, invece, dovessi non rinnegare in questo momento la mia natura sociale, ti indicherei una persona disabile, potrebbe essere una bella scommessa per voi.

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LINKS: www.terrateatro.org

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15 thoughts on “Ottaviano Taddei

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