La scorsa settimana si è tenuto a Pescara il Webfest, una rassegna ricca di eventi, workshop e presentazioni che ruotano intorno al mondo del web e del digitale in generale.
Ho assistito a poche presentazioni ma molto interessanti. In particolare ho visto alcuni dei lavori presentati da Ico Design, unit9 e Helpful Strangers. Si tratta di agenzie che curano i progetti sul web per grandi compagnie, lavori che sono incredibilmente avanzati dal punto di vista tecnico e che nascondono un lavoro progettuale lungo, laborioso e complesso. Proprio questo è stato il lato più interessante perché i progettisti hanno fatto conoscere i lati meno evidenti del proprio lavoro, fatto di estenuanti rapporti con i clienti e le loro richieste.
Ora, poi, posso dire di aver ampliato il mio vocabolario con due nuovi termini: “parsare” (di cui ignoro tuttora il significato) e “targettizzare”.
Guardando il lavoro di Helpful Strangers mi sono sorti dei dubbi. I due designer, giovani e brillanti come ovviamente si confà a un festival del web, hanno mostrato, tra gli altri, due videogiochi elaborati per note società che producono cereali per la colazione e succhi di frutta. Ebbene si è trattato di un lavoro immane in cui questi giovani progettisti hanno riversato incredibili dosi di energia e talento, però nessuno di loro mi sembra si sia chiesto se creare un videogioco rivolto a bambini a partire dai 6 anni (dico 6 anni, come specificato dal brief dei clienti) con lo scopo di fidelizzare i futuri clienti e spingerli ad acquistare, loro e i loro genitori, sempre più scatole di cereali industriali non sia un tantinello scorretto e subdolo.
L’obiettivo dell’industria è chiaro, vendere più prodotti possibili, ma tu designer non ti poni proprio il problema che attraverso un’attività ludica e spensierata stai inculcando nella mente di un ignaro bambino un bisogno indotto?
E quindi mi chiedo: esiste un’etica nel mondo scintillante del web? oppure è importante solo fare il sito accattivante, produrre il 3d più fluido e l’esperienza più coinvolgente possibile senza interrogarsi sulle finalità che si nascondono dietro?
d’accordo.
però io non capisco una cosa, se è ok che l’industria pensi alla vendita e al profitto, perchè sta nella cosa, perchè un designer non deve considerare normale eseguire un lavoro che gli è stato chiesto?, cioè voglio dire, il reale problema è nella produzione, o nello stile di vita, o nella società o quel che vogliamo.
perchè deve essere il designer che si interroga se il suo disegno agisce per fini più o meno etici? perchè bisogna scaricare sull’ultima ruota del carro? possiamo come categoria farci carico, a causa del nostro lavoro, di tutta una serie di contraddizioni e errori della nostra contemporaneità? l’architetto del colosseo doveva chiedersi che tipo era nerone prima di fargli un progetto? o michelangelo verificare l’integrità morale del papa che gli commissiona la cappella sistina? boh. una domanda, eh…? ;-)
in generale penso che ogni designer dovrebbe porsi dei principi rispetto ai quali agire: deontologici, nei confronti dei propri colleghi, professionali, nei confronti della propria disciplina, etici, nei confronti degli altri. Detto questo, ognuno è libero di agire secondo la propria coscienza etica e professionale, basta esserne consapevoli.
Per quello che mi riguarda, penso che un progettista possa anche rifiutarsi di svolgere un lavoro affidatogli, oppure cercare di porre delle precise condizioni rispetto alle quali poi operare. E non fa niente se ci sono 3000 persone in fila dietro di te disposte a farlo a occhi chiusi.
E poi, è vero che il problema è macroscopico, sociale, economico, epocale, però siamo noi, con le nostre scelte minime a fare la differenza.
Certo, tutto in linea teorica, quando poi mi chiederanno di progettare il colosseo ti farò sapere…
beh, almeno nerone è morto da qualche secolo, ti va bene, dai, al limite ti confronti con della valle, il nuovo proprietario…
gli mando il curriculum