L’assemblatore universale

    Ogni volta che ci avviciniamo dalle parti di Teramo sappiamo che ci perderemo. Questa volta siamo diretti verso Villa Pompetti, ridente contrada della frazione di San Nicolò. Siamo già in ritardo, piove, e intorno a noi non si vede nulla in questo territorio che sembra attraversato da superstrade disegnate a caso. Ci perdiamo anche gli unici punti di riferimento, negozi e centri commerciali decorati da enormi orchidee al neon, arriviamo fin dentro Teramo per poi tornare indietro. Finalmente imbocchiamo l’ennesima superstrada che sembra perdersi nel nulla e accostiamo davanti a una palazzina anonima su una strada anonima, in salita: eccoci a Villa Pompetti, anzi, alla sua periferia, che poi è come dire periferia al cubo.
    Avevamo conosciuto Giustino Di Gregorio a Bellante, durante l’edizione annuale di CasAperta, e poi incontrato di nuovo a Teramo dove ci era piaciuta molto la sua installazione che univa foto, video e musica su uno strano trabucco instabile. Ora ci apre la porta di casa e ci porta nel suo sancta sanctorum, lo studio che si è ricavato sulla mansarda.
    Anche se piccolo, lo studio è zeppo di cd, computer, schermi, cavi. Ogni cosa è stata autocostruita, compreso lo strano controsoffitto che sovrasta la zona audio, una composizione di tavole di compensato standard aggregate a mo’ di tetris in cui sono incastrati ogni tanto dei neon. Giustino l’ha realizzato grazie al prezioso aiuto di Santina, la suocera-assistente.
    Nella stanza notiamo anche altri oggetti curiosi: quelle che sembrano canne fumarie si rivelano lampade e degli alti cilindroni rivestiti di juta sono degli ingegnosi abbattitori.
    La stanza racchiude nello stesso spazio le due anime creative di Giustino: da una parte si trovano attrezzature e computer dedicate esclusivamente ai suoi progetti musicali, dall’altra tutti gli strumenti che servono per realizzare i suoi “assemblaggi video”. Nel mezzo campeggia un gran divano a tre posti dove sprofondiamo per fare l’intervista.
    Durante la conversazione, dalla quale è stato difficile staccarci se non a notte inoltrata, era presente sempre Rita, la moglie nonché partner di Giustino in tutte quelle che lui chiama le sue “mattità”. Anche se nell’intervista non compare, dietro i racconti di Giustino, gli aneddoti che riguardano circa vent’anni di vita in comune, c’è sempre lo sguardo d’intesa che li accompagna ad ogni ricordo.
    È difficile raccontarvi il clima della serata: l’accoglienza a base di gelati e torte rustiche, le risate continue, i racconti surreali, ma soprattutto la semplicità disarmante di Giustino che l’etichetta di “neoprimitivo”, forse con troppa facilità attribuitagli nelle note del suo cd, semplifica eccessivamente. Perché dietro la semplicità di questo artista si cela una costante ricerca dell’eleganza, della pulizia sia formale sia concettuale, una passione profonda e una disciplina ferrea.
    Dopo aver visto le miriadi di cose che ha prodotto e realizzato in questi anni, gli ho domandato che cosa avrebbe mai potuto fare se, invece che a Villa Pompetti, fosse nato a New York o Berlino.
    “Non avrei fatto niente”, mi ha risposto. “È il fatto di vivere dove non c’è niente, nella periferia di una periferia di una provincia sperduta, che mi ha sempre spinto a fare, con le mie mani, ciò che mi mancava.”
    Un discorso a parte lo merita il modo di parlare di Giustino che qui nel testo non può arrivare se non attraverso un’eco lontanissima. Il nostro intervistato parla con la tipica cadenza teramana, un modo musicale di esprimersi che sembra ogni tanto arrotolarsi su se stesso in termini e frasi nelle quali le vocali si trasformano in tonalità chiusissime o, addirittura, spariscono completamente.
    Se nel testo abbiamo conservato, ogni tanto, i suoi termini dialettali è solo per cercare di rendere la piacevole musicalità della sua conversazione.

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    Per iniziare, ci dici che lavoro fai?
    Mannaggi’a la madosca, mi spiazzi, mi ero preparato tutto sulla musica… attualmente, perché di lavori ne ho fatti tanti, faccio assemblaggi di schede elettroniche, quelle dei telefonini.

    Prima, invece, cosa facevi?
    Prima stavo alla linea, sempre assemblaggio ma meccanico, meccanismi per aperture di cancelli elettrici. Ora in fabbrica siamo io e una ventina di ragazze…

    E come ti trovi?
    Sto come un cencio.

    In che senso, troppo faticoso?
    Ma no, è che quando hai queste follie in testa, a stare chiuso dentro una fabbrica è dura.

    Almeno ti riporta con i piedi per terra.
    È vero, potrebbe essere una cosa positiva, comunque ti distrugge… nel senso che quando lasci dei lavori incompleti, e stai in fabbrica, è distruttivo per me ma anche per l’azienda…

    Invece nel tuo mondo artistico che fai?
    Non lo so, spazio parecchio tra musica e video, ultimamente installazioni…

    Ci racconti la storia di quando un famosissimo musicista e produttore americano, John Zorn, ti ha chiamato per fare un cd?
    Ho fatto un cd per la Tzadik, l’etichetta di Zorn, però non è stato il mio primo lavoro. Prima ho realizzato un cd autoprodotto con l’etichetta di mio fratello Gabriele, la Goodbye Boozy Records: erano 8 minuti e ci stavano dentro circa 80 o 90 autori e non so quanti frammenti. Quando andammo alla Siae a Teramo ci pigliarono pe’ mitt, dovemmo andare a Roma dove c’era questa signora, abbastanza disponibile, che ci consigliò di non dichiarare la provenienza di tutti gli autori, al massimo, entro tre anni si sarebbero fatte vive le etichette per querelarci…
    Invece, in America successe il contrario, quando hanno comprato il lavoro hanno richiesto tutti gli autori e i secondi di durata di ogni frammento.

    Come si chiama questo primo lavoro autoprodotto?
    Si chiama Sprut. Poi, quando è uscito per la Tzadik, Zorn l’ha usato come titolo, in realtà è il mio nome d’arte, inventato da Rino Rossi. Praticamente è la simulazione di un rumore, quello di quando schiacci un foruncolo. Rino mi faceva anche i titoli dei pezzi, pensa che ci sono titoli più lunghi dei brani musicali…
    Tutto è nato facendo delle cassette di musica per delle feste techno-cyber che facevamo a Villa Pompetti. Avevo la piastra e con una facevo andare la musica e con l’altra registravo, erano assemblaggi. Ci voleva nu saccacc’ di tempo ed era pure costoso perché dovevo usare queste cassette “al metal”. Col fatto che dovevo andare avanti e indietro – non è che ci beccavi sempre: facevi andare il play e dovevi stare attento e beccare il rec nel momento giusto che ti serviva – a lungo andare il nastro si rovinava, quindi usavo queste cassette al metal, diciamo un po’ più professionali. Rino sentì una composizione, un assemblaggio, è mi spinse a continuare. Poi ho scoperto questo multitracce che mi permetteva di posizionare il frammento audio al punto giusto. Per comprare il multitracce, un Akai analogico, mi sono venduto la telecamera professionale con cui facevo i servizi matrimoniali. Con questo multitraccia ho realizzato il primo progetto autoprodotto e parte di quello uscito per la Tzadik. L’ultima parte del cd per Zorn, invece, l’ho fatta con un software digitale,  il Cool Edit Pro.

    Ok, ma Zorn come è arrivato a te?
    Ora entra la storia della Snowdonia. Cinzia La Fauci mi chiamò per partecipare a un progetto, Orchestre meccaniche italiane, che riuniva un po’ di stì autori sperimentali che c’erano in quel periodo. Era una compilation autoprodotta – mettemmo 150 mila lire, non m’arcord bbon’ – mi sa che fece 1000 copie e le inviò ad alcune etichette importanti tra cui quella di Zorn.
    In realtà, già quando feci il mio primo progetto mi sarebbe piaciuto farlo sentire a Zorn e ci sarebbe stata anche la possibilità di darglielo direttamente perché venne a fare un concerto a Pescara, ma c’era talmente una stima nei confronti di questa persona che non pensavo che uno così famoso si sarebbe potuto interessare al mio lavoro. Invece, un anno dopo, quando uscì questa compilation, fu proprio Cinzia a chiamarmi per dirmi che Zorn aveva chiesto di me perché aveva sentito il brano e gli era piaciuto.

    Scusa, ma John Zorn ti ha chiamato al telefono, vi siete sentiti?
    Arspunnò la suocera, quando tornai da lavoro mi disse che aveva chiamato nu giargianes’.
    Neanche un’ora dopo che me lo aveva detto mia suocera mi chiamò Cinzia e mi avvisò che mi avrebbe chiamato questo Romero, un responsabile della Tzadik in Italia. Romero, infatti, mi chiamò una sera, parlava in italiano, e mi raccontò tutta la storia – che Zorn mi aveva cercato, che il brano gli era piaciuto nu saccacc’, che era interessato a farne una produzione – e mi chiese subito se avevo altro materiale, allo stesso livello di quel brano. Mi disse anche che ci dovevamo incontrare dopo due mesi a Verona dove Zorn aveva in programma un concerto.
    Zorn mi chiese di iniziare a lavorare su delle cose, intorno a una tematica, voleva una cosa che rappresentasse l’Italia, una cosa folk stranissima…

    Una cosa “pizza e mandolino”?
    Gli dissi che mi era difficile fare una cosa così e lui mi disse che non faceva niente, anzi di lasciar perdere che aveva detto una cazzata… Avevo letto che Zorn era un tipo assurdo, difficile da trattare, e quando andammo al concerto a Verona, effettivamente, faceva paura. In realtà lui non vede bene, non vede da vicino, e quindi non saluta nessuno. Mi ricordo che c’erano tutti questi soggetti, musicisti e giornalisti, e vedevo stù tipo che non calcolava nisciun’, faceva terrore effettivamente, anche sul palco faceva paura, nel senso che teneva i musicisti a bacchetta.

    Raccontaci il primo incontro che hai avuto con lui, anche tu non sei stato calcolato?
    No, anzi, quando mi ha visto, mi ha calcolato subito, fu Romero a presentarci: c’eravamo io, Claudio, Fabio (mio cugino), e Giancarlo.

    Una vera delegazione.
    Eravamo tutti emozionati, ognuno con la sua macchinetta fotografica, che poi anche Fabio, Claudio e Giancarlo avevano partecipato alla compilation della Snowdonia e sto caspita di John Zorn se li ricordava pure! Dopo le presentazioni mi disse subito che il progetto gli era piaciuto parecchio e di prendermi tutto il tempo che volevo per fare un cd di 40 minuti, cioè al primo pezzo che voleva includere, che durava 8 minuti, dovevo aggiungere altri 30 minuti… me se ne cascò lu mond ‘ntir, perché per fare quegli 8 minuti ci avevo messo quasi un anno…

    Un anno per fare 8 minuti?!?
    Per fare tutto il progetto ho impiegato 4 anni: nel ‘95 uscì il disco autoprodotto, nel ‘96 mi incontrai con Zorn e il disco uscì nel ‘99. Zorn ha aspettato tre anni durante i quali, man a mano che facevo i pezzi, glieli mandavo e lui, ogni volta, si complimentava. Romero mi chiedeva di essere più veloce, perché la Tzadik non poteva certo stare ad aspettare me… ma io avevo i miei tempi. Anche lì cumpagn’ mi dicevano  di calmarmi, di non affrettarmi per non fare  stupidaggini, e infatti ho fatto così, con calma, quasi tre anni l’ho fatto aspettare Zorn…

    Però ha aspettato.
    Se ci penso, è assurdo…

    E poi quando è uscito?
    Quando è uscito fu lu finimonn’, arrivarono richieste per andare a suonare da tutte le parti, Olanda, Germania…

    E rispondeva sempre tua suocera?
    No no, solo che questo è un progetto talmente assurdo che è quasi impossibile da fare live. Per un periodo ci ho anche pensato ma fu lo stesso Romero a consigliarmi di non farlo. Tutte le volte che ho assistito a concerti di gente che si occupa di assemblaggi musicali è stato un po’ deludente, troppo freddi dietro gli schermi dei computer. Io volevo fare una cosa insieme ai musicisti e avevo anche trovato qualcuno interessato alla situazione… solo che uno era di Bologna, uno di Roma, io lavoravo… Sarebbe stato bello mettere insieme le parti elettroniche con i musicisti che entravano e uscivano… però alla fine non ci siamo riusciti. Fino all’anno scorso ancora arrivavano inviti a serate, anzi, c’è un tipo in Friuli che continua a chiedermelo…
    In realtà, l’unica cosa di cui mi sono pentito è di non saper suonare, avrebbe facilitato il mio rapporto con i musicisti.

    In effetti, alla musica ci sei arrivato assemblando campioni sonori, non attraverso lo studio di uno strumento musicale…
    Ripensando a quello che ho fatto, sia nella musica sia nel video, devo riconoscere che tutto è nato da mio nonno. Passavo tutto il tempo insieme con lui in questa specie di laboratorio di falegnameria. Mio nonno stava sulla carrozzella, non poteva camminare, ma era convintissimo che, prima o poi, avrebbe camminato. Mi fece costruire una macchina con i pedali, di legno, guidandomi e dicendomi come assemblarla a partire da pezzi di legno.

    L’idea dell’assemblaggio musicale da cosa nasce?
    Dalla passione. Con mio fratello Gabriele abbiamo consumato così tanta musica che a un certo punto eravamo diventati dei tossici della musica, compravamo 350, 400 mila lire di musica al mese. Siamo arrivati a un punto in cui non riuscivamo a trovare più quello che volevamo e così ho deciso che dovevo fare da solo. Tutto ci venne in mente una notte quando con mio fratello ascoltavamo la radio, credo una trasmissione di Radiorai che si chiamava Planet Rock, e lui continuava a cambiare stazione. Da lì mi venne l’ispirazione e, infatti, la prima cassetta la feci con la radio, cambiando stazione velocemente.

    A che età hai iniziato a fare questi esperimenti?
    Appena sposato, intorno ai 28 anni, però a pazzià con il montaggio ho iniziato prima col video che con la musica. A 14 anni mi divertivo coll’8 mm: quando tutti chiedevano il motore, io a papà chiesi proiettore e cinepresa. Ricordo che papà ci rimase anche male… era il giorno della befana, andammo la sera a Teramo e a una bancarella mi comprò il primo proiettore con questo filmino western, di 3 minuti. Per 4 o 5 anni, ovunque andassi portavo con me questo filmino. La sera, quando d’estate andavamo da mia nonna in campagna, ci vedevamo stu filmino e poi ci iavam a durm’

    Ma tre minuti che in loop duravano ore oppure tre minuti e poi tutti a letto?
    Lo vedevamo al massimo un paio di volte, tanto erano tutte repliche…

    Quindi, all’inizio avevi solo il proiettore?
    All’inizio sì, la cinepresa costava, mi aiutò sempre papà a comprarla, quando iniziai a lavorare a 16 anni. Era una Kinon, che ancora ho, con cui iniziai a fare queste prime riprese e a sperimentare l’assemblaggio. Il montaggio effettivamente è passato dal legno alla pellicola ed è divertentissimo, tutto un tagliare e attaccare… In quel periodo, dal ‘77 al ‘79, mi divertivo a riprendere di nascosto i paesani, dopo ho iniziato a fare ‘sti corti, che ho messo su Youtube, ma ce ne sono tanti altri ancora.

    Cosa ti piace della ripresa, scoprire cose che gli altri non vedono, raccontare, documentare… o è tutto il piacere che hai dopo di tagliare e rimontare?
    Non te lo saprei dire, penso che sia stato quel filmino western, 3 minuti per tre anni di fila, la voglia di fare qualcosa di diverso…

    Forse è la stessa cosa avvenuta con la musica, quando hai finito di ascoltare sei passato a fare…
    C’era anche il fascino del cinema, in particolare impazzivo per i film italiani in bianco e nero. Ricordo che la domenica pomeriggio rimanevo chiuso a vedere tutti questi film su rai3. Poi, quando sono arrivati i primi videoregistratori, li registravamo e facevamo anche i doppiaggi in dialetto: abbiamo rifatto Colazione da Tiffany, Via col vento, Shining

    Molto prima, quindi, di Marco Papa. Dopo l’8 mm cosa a cosa sei passato?
    Per 4 o 5 anni ho registrato tutto quello che facevamo, i miei amici erano talmente abituati che neanche più si accorgevano che li riprendevo. Negli ultimi periodi, quando andavamo in gita, tipo ad Ancona, Pescasseroli, Gardaland, a un certo punto li bloccavo. Durante le riprese dicevo “Stop!” e loro dovevamo fermarsi, poi cambiavo angolazione e riprendevo a girare.

    Quando è arrivato il digitale cosa è successo?
    Col dv ho fatto delle cose interessanti, però non ho fatto più corti, niente, facevo delle riprese cuscì

    Nel momento in cui avresti la possibilità di registrare 24 ore su 24, senza problemi di riversare in digitale, conservare cassette ecc. ecc., ti è passata la voglia?
    Infatti, n’so fatt chiù nint, però mi sono comprato di nuovo una cinepresa super8, bellissima, tedesca. Il problema è che quando questa passione ha iniziato a diventare un lavoro tutto è diventato pesante. Ci comprammo questa telecamera professionale, quella che poi ho venduto per comprarmi il multitraccia, e io e mia moglie Rita iniziammo a lavorarci per fare i matrimoni. Facemmo anche un bel po’ di soldi, anche perché all’inizio eravamo in pochi a farlo, solo che lavoravamo per degli studi che ci davano degli standard da seguire e non era più divertente, a parte il matrimonio di Claudio che l’ho fatto che sembra un film di David Lynch…

    Non hai mai pensato di lasciare la fabbrica e fare solo il videomaker?
    Scì, ma non mi piaceva più, e poi in quel periodo iniziai a fare questi progetti di assemblaggio sonoro e così mi vendetti la telecamera per comprarmi il multitraccia. Però, ho continuato a fare video con una piccola telecamera che mi sono comprato, insomma il “discorso” video c’è sempre…

    Lo si vede bene in questa stanza, dove hai due lati specializzati, uno per il “discorso audio” e uno per il “discorso video”. Non potevi avere tutto su una scrivania? Se devi fare un lavoro che coinvolga contemporaneamente audio e video ti serve una terza postazione?
    Ho bisogno di avere due posti diversi, quando sto qua, mi dedico solo all’audio, di là al video, così sto più concentrato. Quando ho lavorato al progetto dell’installazione per Teramo da una parte ho preparato la base audio e dall’altra la parte video. Anche nell’installazione, audio e video sono compresenti ma non sincronizzati, viaggiano parallelamente.

    Da quello che ci racconti sembra quasi che per te la molla sia la sfida di portare gli strumenti al limite delle loro possibilità. In analogico hai fatto cose complicatissime, quando poi è arrivato il digitale a semplificare il tutto, non ti ha interessato più, è così?
    Sul disco della Tzadik ci sono tre progetti, i primi due, fatti col multitraccia analogico, sono complicatissimi, con frammenti che entrano a una velocità incredibile, il terzo progetto, invece, fatto col software digitale, che ti permetterebbe di fare delle cose assurde, è di una semplicità impressionante. Era quello che volevo, quando avevo l’attrezzatura che mi permetteva di fare cose impensabili, ho ricercato la semplicità.
    Mentre nei primi pezzi era tutto un gioco di frammenti ricomposti in modo maniacale, uno dopo l’altro, usando solo l’orecchio, nel terzo progetto, fatto in digitale, il discorso diventa compositivo. Ci sono sempre 15-20 frammenti in soli 20 secondi, però in realtà non li senti, tutto è molto fluido.

    Tutto questo senza che tu abbia mai studiato musica…
    Questo è l’ascolto. Secondo me la grande differenza tra un musicista e uno come me è che il musicista di rado ascolta. Molti musicisti che ho conosciuto sono parecchio tecnici, studiano, ma ascoltano pochissima musica. Per esempio, una delle cose per cui m’attacc con questi musicisti è che a me piace Orietta Berti, mi piace Finchè la barca va. Ora solo perché chist suona la chitarra e va a 300 all’ora, allora Orietta Berti non va bene? Madonna, per esempio, mi piace, ci sono delle sue cose eccezionali…. Di tutti i musicisti che ho incontrato, il 5%, ma neanche, effettivamente fa quello che è nelle sue vere corde, normalmente fingono, fanno delle cose che non sono loro. Ogni volta che ho avuto a che fare con musicisti professionisti è stata una delusione, forse ho incontrato tutte persone sbagliate… sono sempre molto attaccati a regole, a canoni. Quando ci sono troppe regole, mi fa paura.
    Ora non voglio generalizzare, però proprio perché sento di non avere una formazione ho sempre cercato di confrontarmi con i musicisti, andandoli a cercare sia in studio di registrazione sia ai concerti sia ascoltandoli in cd. Una delle cose che mi è sempre piaciuta è confrontarmi con artisti tosti. C’erano settimane in cui riuscivo a comporre anche 15 secondi…

    Prolificissimo, praticamente col contagocce…
    Pensa che per il pezzo dedicato alla Rosselini, Minuetto per Isabella Rossellini, forse il più bello che ho fatto, ci ho messo due mesi e qualcosa per fare la prima parte, e altri tre mesi per la seconda. Ricordo che una notte non ero soddisfatto del lavoro fatto ed ero indeciso se proseguire o cancellare tutto e ricominciare daccapo il giorno dopo. Erano le 6 del mattino, stavo davanti al caminetto, ed ero così disperato che iniziavo a sentire la sofferenza di ‘sto tronco che bruciava, mi venne quasi l’istinto di prendere un bicchiere d’acqua e jittargliel’ addosso perché non ne potevo più di vederlo soffrire…

    Prima dicevi che ti piace confrontarti con i grandi artisti…
    Quando finivo di fare un pezzo, prima lo riascoltavo e poi cercavo di farmi del male ascoltando qualcosa di John Oswald, uno degli assemblatori più tosti che stanno in America, fa delle cose veramente criminali. Cercavo il confronto, però notavo che c’erano differenze, soprattutto dal punto di vista compositivo, e proprio queste differenze mi davano la carica, perché sentivo di poter dire qualcosa anch’io di personale, stev’ caric’assì. C’erano nottate così creative che il giorno dopo, in fabbrica, jev’ sgrizzenn.
    Vi racconto questa cosa. Stavo lavorando proprio al pezzo sulla Rossellini e, per abitudine, quando finivo di fare una cosa che mi piaceva, tipo 3 o 4 secondi, me ne uscivo fuori sul balcone a fumarmi una sigaretta. Mentre stavo lì a gustarmi la sigaretta, erano forse le 3 e mezza di notte, inizio a sentire un rumore assurdo e vedo passare all’altezza del balcone una barca con sopra delle ragazze che ballavano e mi salutavano. Penso che è stato il minuto più brutto della mia vita: la prima cosa che ho pensato è stata “e mo’ che jie dic’ a li uajiun, che jie dic’ a mojem” nel senso che ho pensato veramente che me n’avev’ scit’ d’ cocc’ pe’ tutt stù stress, pe’ lì nuttat’. Ci ho messo un minuto per capire che era tutto vero, infatti, erano sti scemi che andavano a fare una sfilata a Teramo per la coppa Interamnia e la barca era tirata da un trattore enorme che non avevo visto. Era una specie di carro di carnevale, ma la sensazione non è stata per niente bella.

    Continui a fare le nottate?
    Ogni tanto, diciamo che sto più attento a fare una vita più salutare. Però, non ne posso fare a meno. Il fatto è che mentre sto in fabbrica elaboro e poi quando arrivo a casa devo mettermi subito a lavoro.

    Qual è il progetto cui tieni di più?
    Sicuramente quello della Tzadik, ogni volta che lo ascolto scopro cose nuove. Ultimamente l’ha ascoltato Teho Teardo, che ha fatto le colonne sonore per Il divo e La ragazza del lago, e anche lui ci trova delle cose innovative.
    Ji nì sacc’ com’ lì so’ fatt’… molte persone mi dicono nu saccacc’ di cos’ bill, è tutta una questione di sensibilità, riescono a captare cose che nemmeno io sapevo. Penso che siano loro i veri artisti, non tanto io che l’ho fatto.

    Quando hai bisogno di ispirazione cosa fai?
    Non vado a cercare, a volte ci sono delle cose che non puoi fare a meno di fare. Ora, per esempio, mi piace molto la pulizia, l’eleganza, sono preso da questo mondo del minimalismo che proprio m’accide, penso che uno dei prossimi dischi che farò sarà senza niente…

    Alla John Cage, i 4 minuti e 33 secondi di silenzio, però il tuo durerà 5 secondi netti…
    E ci metterò pure nu saccacc’ di tempo per farlo…

    C’è un sito web che ti piace visitare?
    Mi piacciono i siti di informazione musicale e di cinema, ma non ce n’è uno in particolare.

    Una rivista?
    Non riesco proprio a leggere.

    Vale anche per i libri?
    Non ho mai letto, mi sforzo parecchio con questi manuali quando devo imparare a usare telecamere e software. È una cosa che mi è sempre dispiaciuta però, perché a me l’odore dei libri m’ fà ammattì, quando entro nelle librerie è per sentirne l’odore. Una volta mi sono comprato un libro, Mondi virtuali, ci ho messo due mesi per leggere due pagine con tanto di vocabolario affianco…

    Anch’io l’ho letto, Benjamin Wooley è un giornalista bravo, scrive in modo molto piacevole…
    Pins’ ‘mpò a che cazz di livell sting miss …

    Un programma tv?
    Ballarò.

    Film?
    Mi è piaciuto molto Come Dio comanda di Salvatores. In realtà è difficile rispondere perché mi piacciono tantissimi film, mi piacciono di brutto i film di Sergio Leone, quelli di M.Night Shyamalan. Fellini è geniale, in particolare mi è rimasta impressa la scena in Amarcord in cui passa sta nave e ci sono questi sulle barchette che guardano in alto…

    Diciamo che questa scena l’hai pure vissuta dal balcone di casa… Musica?
    Sicuramente metterei Jimi Hendrix, un genio, Miles Davis, per stu cuncett di togliere sempre, è uno di quelli che mi ha scioccato di più, anche Coleman e Coltrane e poi le ultime cose elettroniche, oppure Marc Lanegan, poi nu saccacc di musica garage

    E non dimentichiamo Orietta Berti…
    Anche Massimo Ranieri, Erba di casa mia mi fa ammattì.

    Una città in cui vivresti?
    Non ci ho mai pensato… forse New York.

    Quali sono le qualità che servono nel tuo lavoro?
    La sensibilità, la semplicità, l’ignoranza e l’incoerenza.

    C’è una qualità che vorresti avere e che ti manca?
    Vorrei avere più conoscenze tecniche in ambito musicale.

    Cosa ti piacerebbe trovare nel tuo futuro?
    Sicuramente mi piacerebbe riuscire a dedicare tutto il tempo a ‘ste cose, sarebbe bello…

    Invece, una preoccupazione?
    Che forse, effettivamente, devo continuare a jì a la fabbrc… anche se ci sono venti donne che lavorano e io sono l’unico uomo. Però il brutto è che lavorano, sono di quelle che sostengono che il lavoro salverà l’Italia, io, invece, sono convinto che sarà l’arte.

    Ci fai il nome di persone e amici che vale la pena di conoscere?
    Uno è quello che chiamiamo “il poeta pazzo”, ma è impossibile da intervistare; Marco Rodomonte, fa sculture ed è interessante anche come persona; Manuela Cappucci e tutto il suo mondo; Rino Rossi, ha una cultura musicale che fa impressione, ora lavora da Brico ad Alba Adriatica ma scrive spesso su diverse riviste musicali; Sara Marchetti, ballerina, con cui ho fatto delle collaborazioni; per finire, mio fratello Gabriele (Goodbye Boozy Records) una vita dedicata alla musica garage.

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    69 thoughts on “L’assemblatore universale

      1. for youuuuuuuuu
        for the rest of my life
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        for the rest of my life
        for youuuuuuuuu
        ……….

    1. Guarino, già sai quanto mi piacciono le tue maturità e quanto ti voglio bene!!!! Lunga vita all’assemblaggio universale!
      …secondo me dobbiamo intervistare Santina la suocera wonderwoman…

    2. Giustino, già sai quanto mi piacciono le tue mattiità e quanto ti voglio bene!!!! Lunga vita all’assemblaggio universale!
      …secondo me dobbiamo intervistare Santina la suocera wonderwoman…

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