“Il design contemporaneo soffre di una grave forma di consunzione. Non quella flebile condizione che colpisce i personaggi dei romanzi vittoriani, ma quella completamente moderna causata da abbuffate tossiche di immagini e informazioni. I suoi sintomi più urgenti si presentano come vomito e costipazione cronica fino alla ostruzione intestinale. In altre parole, non puoi né trattenere né sbloccare.
La luccicante dieta del design è incredibilmente ricca ma poco nutritiva e produce una strana fisiologia: corpulenza flaccida e macilenza scheletrica, come se l’anoressia e l’obesità convivessero contemporaneamente. La cultura del design contemporaneo si consuma come se fosse in un vomitorium romano dove nulla viene digerito, tutto viene inghiottito per il piacere fugace della consunzione stessa, solo per essere poi espulso e fare spazio alla prossima portata.
Il mezzo, come ben sappiamo, è il messaggio. Quindi, per riuscire a intravedere la natura nebulosa della cultura del design contemporaneo dovremmo guardare alle stesse forme dei media del design. Le cornici attraverso cui guardiamo il design non sono trasparenti, sono meccanismi che costruiscono la cultura del progetto intorno alla massa degli oggetti che produciamo. Forse allora non è il design contemporaneo in sé che è la causa della sua condizione, ma i media che lo comunicano.
C’è stato un tempo in cui il design poteva essere catalogato. I suoi oggetti potevano essere contati e contabilizzati, disposti in sequenze per costruire specifiche narrazioni. Pensate al modo in cui le istituzioni come il V&A o il MoMA costruivano narrazioni e ideologie del design attraverso le cose che raccoglievano ed esponevano, attraverso il loro patrocinio. Il museo, come la rivista, ha funzionato come un particolare tipo di media per il design. Tra la fine del 19° e il 20° secolo musei e riviste hanno scritto racconti e creato nuovi stimoli dall’Arts and Crafts al Modernismo, dal Brutalismo al Postmodernismo. Hanno scritto narrazioni del design in modo così indelebile che ancora oggi ne riconosciamo l’intento.
Queste, una volta importanti, cornici curatoriali sono ora solo setacci in uno tsunami di design. Non è che i musei siano divenuti troppo piccoli, è che il design è diventato mostruosamente voluminoso: innumerevole e incatalogabile. Il volume e la scala del design ha superato qualunque dei suoi stati precedenti, facendo scoppiare le cuciture delle definizioni che abbiamo usato per rivestirlo, apparentemente impossibile da inquadrare nella galleria del museo o sulla pagina della rivista.
La cultura del design ora scorre attraverso una nuova forma di media come sovrabbondanza infinita di immagini patinate che sgorgano attraverso tubature digitali super-lubrificate. Questo sito [Dezeen] è forse il vero manifesto dei nuovi media attraverso i quali consumiamo la cultura del progetto. E così, direi, come nuova forma popolare di medium per il design, è un luogo all’interno del quale si produce ora la cultura del progetto contemporaneo. Ma che cosa è, esattamente, questa nuova forma di cultura del design? Come può qualcosa di simile alla cultura esistere in questo flusso di incontinenza da Photoshop?
Dezeen è un medium per il design nato digitale. Non è il riflesso in Internet di un’istituzione fisica precedente, ma una cosa in sé e per sé. È nata dal tipo di comunicazione che avveniva dietro le quinte del giornalismo. Il suo semplice trucco è stato quello di deviare il flusso dei comunicati stampa di massa spediti ai giornalisti in una forma rapida e accessibile al pubblico. Libere dai formati e dagli obblighi dei media tradizionali, le strutture e le logiche di Dezeen sono il frutto degli stessi protocolli di comunicazione elettronica: ordinate per data, per parole chiave e raccolte da un sistema di gestione dei contenuti.
Scorrendo le pagine, siamo subito colti da nausea provocata dalla sensazione di un’inarrestabile immediatezza patinata. Diventiamo ammutoliti di fronte all’inventiva esercitata dai designer. Ma non appena riusciamo a prendere un respiro, mentre affoghiamo in questa infinita vacuità, dovremmo riconoscere che si tratta anche di un prodotto del nostro desiderio collettivo. È la volontà di un’epoca espressa sotto forma di un’insana, enorme chiazza di roba. In questa chiazza troviamo una tempesta perfetta in cui il senso d’individualità del design si incontra con la gerarchia appiattita del digitale, moltiplicato dalla centrifuga superveloce del contenuto.
Oltre a questa sensazione di nausea, il vomito infinito di immagini e idee progettuali fuori dai nostri schermi provoca altri effetti sulla cultura del progetto. Ci libera dai custodi tradizionali rappresentati da curatori ed editori in modo tale che il progettista è più libero (se supera la procedura di selezione di Dezeen) di parlare senza ostacoli direttamente al mondo (in meglio o in peggio). Il formato, la velocità e anche il volume di Dezeen, semplicemente attraverso la natura vorace della bestia, aiutano ad abbattere i tradizionali confini disciplinari – almeno all’interno dei suoi propri termini. Studenti e laureati stanno spalla a spalla con i vecchi e famosi con molta più facilità rispetto a musei o riviste.
Ma allo stesso tempo vediamo la critica ridotta a metriche di visite, mi-piace e retweet. Vediamo commenti, a malapena leggibili, essere ossessionati da antiquate, pre-digitali (pre-moderne, anche) idee di autenticità e originalità quando non sono altro che paranoico-aggressivi. Proprio mentre si espande la nostra visione del design, si restringe contemporaneamente la nostra capacità di comprendere. La nostra concezione del design rispecchia i mezzi attraverso i quali lo osserviamo.
Dezeen e i suoi cugini digitali rappresentano una nuova forma di cultura del design digitale, entità con equivalenza totale e implacabile, una narrazione senza cima né fondo, senza inizio né fine. È post-curatoriale e post-editoriale. In altre parole, è un luogo dove tutto può succedere ma nulla mai avverrà.
Mentre condividono alcune delle qualità digitali native di altre culture di rete (Wikileaks e Fan / Fic per citarne solo due) Dezeen, i suoi imitatori e i suoi utenti devono ancora sviluppare una versione equivalentemente sofisticata della cultura del design digitale. Invece, all’interno del loro spazio personale, vediamo designer che fanno una caricatura del ruolo del design, progettando cose che hanno la familiarità del design, parlando come ci immaginiamo che debba parlare un designer. Vediamo oggetti ed edifici che sembrano interpretare oggetti ed edifici a cui siamo abituati, il genere di cose che si adattano alle narrazioni dei vecchi media. Rimaniamo ossessionati dai fantasmi della vecchia progettazione, incapaci di rinunciare a queste arrugginite armature professionali.
Peggio ancora, abbiamo anche gettato a mare le competenze dei vecchi media per dare forma e significato ai mondi che il design produce. Dopo aver abbandonato la capacità di sviluppare narrazioni e direzioni per la cultura del design, ci ritroviamo con la stessa immagine del design, gli stessi eroismi noiosi, la stessa bellezza banale, la stessa immaginazione stantia che gira continuamente intorno. Per parafrasare Orwell, se vogliamo una visione del futuro del design, immaginiamo uno schermo che rigurgita immagini su un volto umano – per sempre.”
Sam Jacob, How can culture exist in a stream
of Photoshopped incontinence?, Dezeen, 24 January 2013