Mi sono riletto con attenzione questa intervista ad Ai Weiwei riportata da Salvatore su Wilfing Architettura appuntandomi alcuni passi. Delle parole di Ai Weiwei mi hanno colpito in particolare queste:
È un’affermazione quasi scontata visto che generalmente un blogger non viene pagato per scrivere e pertanto trova un primo e personale appagamento nel trattare temi che ama. Nel caso di Ai Weiwei, il fatto di essere una persona nota lo rende interessante da seguire. Aggiungerei “nota” anche per non essere allineata ai dettami dello stato cinese. È questa contrapposizione tra censura e controllo da una parte e libertà di espressione e pensiero dall’altra, tra cieco apparato ideologico e il singolo ribelle, che rende avvincente seguire ogni post. Dico “avvincente” perchè in questa sovraesposizione mediatica mi sembra di scorgere il rischio di una spettacolarizzazione, e conseguente svuotamento, delle vicende descritte. Riprendendo, poi, le considerazioni di Hassan quando dice
Mi pare che l'”io” in questione non sia quello tardo-capitalista e narcisista che è stato pompato fino a diventare ipertrofico e compulsivo consumatore ma “io osservatore”, lente di ingrandimento e molteplice punto di vista di una realtà che ha perso i suoi narratori fidati. Il rischio è l’isolamento nel proprio unico e solitario punto di vista senza che evolva in coscienza diffusa e cambiamento sociale.
Il blog come opera aperta, come work in progress, come materia in fieri per comunicare e scambiare idee, per informare i collaboratori, per raccogliere materiali e far maturare le idee. E soprattutto, come opera d’arte in sè, fusione di narrazione e vita, aspirazioni e progetti.
Il blog appare come una palestra in cui sperimentare liberamente, un luogo di azione prima che di riflessione. Come una serie di schizzi tracciati velocemente su di un foglio di carta che non hanno importanza o valore artistico in sè ma che aprono infinite e impreviste strade.
In quest’ultime parole si nasconde il peso di un’operazione tutt’altro che leggera e spensierata. Si cela il senso di una scrittura che può trasformarsi in una condanna a morte.”
Rem saltando la semplificazione dei media (poiché attratti più dal colore delle sue perfomance) ciò che ha scritto Ai Weiwei nel suo blog, soprattutto dal punto di vista architettonico e urbano, è interessante e condensa ciò che dici nel tuo monito finale: «Si cela il senso di una scrittura che può trasformarsi in una condanna a morte».
Ad esempio una madre di una delle bambine uccise sotto le macerie delle scuole di ‘Tofu’ il 20 marzo spedisce questa mail ad Ai Weiwei:
«Oggi abbiamo avuto un incontro, hanno parlato del mantenimento della stabilità (ndr politica ma soprattutto d’immagine per via delle imminenti olimpiadi). Dicono che ci sono più di quindicimila bambini deceduti. Dicono che stabilizzare le nostre famiglie stabilizzerà il Beichuan. Ma io voglio soltanto che più persone sappiano della mia amata figlia […] che una volta visse felicemente in questo mondo per sette anni.»
Ai Weiwei rispose nel suo post così:
«Ho qualche difficoltà a omettere il nome di questa “amata figlia”, per deferenza verso la “stabilità che l’amministrazione del Beichuan desidera fortemente. Ma solo in questo modo si può risparmiare a sua mamma di essere “stabilizzata” per prima.»
e nella Haus der Kunst di Monaco invece in questo modo: in questo modo nella facciata del museo vi era un’iscrizione composta da zainetti con colori vivaci che diceva:
«visse felicemente in questo mondo per sette anni»
Scritto in cinese non in un internazionale inglese.
Nel maggio dello stesso anno, Ai Weiwei, fu arrestato e il blog oscurato.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
nel termine “stabilizzare” c’è tutta l’ipocrisia e la volgarità di un linguaggio che è sistema.
Stabilizzare mi ricorda l’ottusità di alcuni “uomini del fare”.
S