Giampiero Pagnini

Quando arriviamo da Giampiero, accompagnati da Miccetta, troviamo la casa piena di amici. C’è una atmosfera molto rilassata e piacevole, sembra di essere in un ritrovo aperto in cui gli amici vanno e vengono. Giampiero ci tiene a farci vedere i suoi lavori ed è costretto a spiegarci tutto da zero, visto che è la prima volta che sento parlare di macchine a foro stenopeico. Rimango stupito anche della curiosità che dimostra nello sperimentare i processi chimici e fisici nascosti dietro lo scatto di una fotografia e nel combinare pellicole e formati inconsueti.

La sua è una sperimentazione a tutto tondo in cui un elemento fondamentale è rappresentato dal rapporto col tempo e il movimento. Ripensando alle sue parole, mi è balzata agli occhi questa frase  trovata casualmente su una rivista. «Geoff Dyer in But Beautiful, [afferma che] la fotografia implica un senso del tempo più sfumato di quanto non indichi il rumore meccanico dell’otturatore: “Per quanto ritragga soltanto una frazione di secondo, la durata percepita dell’immagine si estende di parecchi secondi su entrambi i lati dell’istante catturato, a comprendere – o così pare – quello che è appena accaduto o sta per accadere»*. Ecco allora che le fotografie, piuttosto che essere bloccate nel tempo, suggeriscono il tempo.”

Per Giampiero tempo e movimento sono due variabili inscindibili. Non c’è tempo senza movimento e non c’è movimento se non nella successione di attimi. L’uno definisce l’altro in un continuo scambio di posizione: non puoi descrivere il tempo se non stando fermo, non puoi raccontare il movimento se non fermando il tempo.

La sensazione che si prova guardando le fotografie di Giampiero è quella di trovarsi di fronte a dei film condensati, è come se le sue immagini avessero un peso specifico maggiore di quelle normali ed effimere a cui siamo abituati. Forse ho l’impressione che pesino così tanto perché sono effettivamente la sommatoria di attimi che si susseguono in un certo lasso di tempo e che lasciano una loro, anche se pur lievissima, traccia. Che poi è solo un altro nome per ciò che chiamiamo vita.

 

* Dan Hill, Lode al tempo perduto, in Domus n.956, marzo 2012, p. 107.

 

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Ci parli della tua ricerca in campo fotografico?
Porto avanti questa ricerca praticamente da quando ho finito il liceo artistico. In realtà ho iniziato prima con il 3d e la fotografia digitale per poi passare alla fotografia analogica che più analogica non si può.

 

Come hai iniziato?
Tutto è iniziato da due passioni che avevo da adolescente. Una è la passione per i graffiti, i tag per strada. Vedere queste calligrafie pazzesche mi ha spinto a sperimentare il writing. L’altra è lo skateboard che non è solo uno sport ma è un modo di guardare e usare l’architettura. Chi va sullo skate guarda allo spazio urbano, con il suo arredo fatto di scale, panchine e rampe, come un potenziale spot, o luogo, in cui provare i tricks, le acrobazie. La scelta del luogo non è mai casuale, c’è sempre un’attenzione fotografica all’ambiente che fa da sfondo alle acrobazie. Il writing mi ha dato la voglia di disegnare, lo skateboard di fotografare ed entrambi si fondono nei miei lavori in cui uso la fotografia come se fosse uno strumento pittorico.

 

Quando parliamo di skate non parliamo di un mondo legato ormai molto alla moda?
Lo skateboard ha influenzato praticamente tutto, dal modo di vestirsi dei ragazzi a tutti gli altri sport che sono venuti dopo, come lo snowboard. Il mondo dello skateboard è fatto tutto di pubblicità, basta vedere le riviste. È un mondo complesso perché si parte dalla bravura dei ragazzi che fanno i trick per passare al fotografo o al filmer che devono avere un occhio attento per cercare di catturare l’attimo migliore nel luogo migliore. Questa attitudine ha influenzato molto la mia visione fotografica.

 

Non è singolare che uno sport di strada, che nasce senza regole dalla voglia sfrenata di muoversi e sfidare la città, poi diventa moda, marketing…
Questo purtroppo è il controsenso ma ha fatto sì che oggi la fotografie per lo skate ha degli standard elevatissimi, pari a quelli della moda, e i video sono diventati dei veri e propri film, non più una semplice catalogazione di trick del personaggio. Negli anni ’80 i video erano girati nei parcheggi col muretto e basta, adesso si organizzano dei tour pazzeschi in giro per il mondo alla ricerca dei luoghi più sconosciuti e spettacolari.

 

In Italia ci sono molti posti interessanti in cui fare skate?
C’è un sito americano che segnala tutti gli spot più belli nel mondo Crailtap.com. Per esempio, uno dei posti più incredibili in Italia è un posto a Frosinone, una piazza assurda con dei vasi per le piante stranissimi. In Europa Barcellona è una delle città più frequentate.

 

Questo è stato il tuo punto di partenza. Come si è evoluto poi il tuo modo di fare fotografia?
Mi sono iscritto al liceo artistico perché mi ero messo in testa di dover imparare a disegnare, in particolare volevo approfondire il disegno della figura umana.

 

Quindi hai studiato anatomia…
L’ho studiata dopo l’incidente e l’unico modo è stato usando il computer. Ho iniziato a fare i miei disegni a partire da foto che facevo con la macchina digitale e che poi rielaboravo a seconda del tema. Ho ripreso a fare fotografie in questo modo, per necessità, e ho continuato finché non ho avuto più stimoli, la foto digitale mi dava un senso di monotonia, non mi divertiva più. Allora ho ripreso a usare le mie compatte, facendomi aiutare da una persona che regge la macchinetta, e da lì ho pensato di dover ripartire da zero, andando a studiare tutti i meccanismi che sono alla base del processo fotografico. In questa ricerca mi sono imbattuto nelle macchine a foro stenopeico che tutt’ora rappresenta la tecnica su cui ho sperimentato maggiormente.

 

Ci spieghi come funziona una macchina a foro stenopeico?
Non è altro che una scatola con un piccolo foro che può essere aperto e chiuso tramite delle levette. Sono regredito completamente ma l’ho fatto per due motivi: il primo è che cercavo un tipo di fotografia molto statica, che assomigliasse al mio modo di vivere e ai miei tempi; il secondo è che non volevo che fosse necessario guardare dentro l’obiettivo, cosa di cui è privo il foro stenopeico.

 

L’hai costruita tu?
La prima l’ho comprata. Ho iniziato a sperimentare, a capire il materiale fotosensibile e come si comporta con scatti che vanno dai due secondi in su. In genere le pellicole sono tarate fino a un secondo, quindi andando oltre si verificano alterazioni che variano dal colore all’esposizione. Ho iniziato a sperimentare con il materiale analogico usando sempre la polaroid per avere un riscontro istantaneo.
Successivamente, ho cominciato a costruire le mie macchine, soprattutto di grandissimo formato, cercando sempre di dare un’impronta pittorica a tutte le mie immagini. In quel periodo ho conosciuto Marina Giannotti, dello Studio Calcografico Urbino, che mi ha fatto conoscere e sperimentare il mondo delle installazioni in cui fotografia, allestimento e luce si combinano.

 

Dove avete presentato questo lavoro?
L’abbiamo presentato a Venezia all’arsenale, come evento collaterale della biennale di architettura dell’anno scorso.

 

Cosa ti affascina di più della fotografia, l’aspetto tecnologico e materico oppure il lato più estetico e pittorico?
Credo che siano tutti e due importanti. Il lato tecnico mi interessa perché mi diverte, soprattutto quando mi permette di realizzare immagini che lasciano gli osservatori stupefatti. Mi è capitato a Catania, dove ho presentato Rosso sedia. Mi aggiravo tra le persone e le sentivo dire che, secondo loro, gli scatti che componevano l’immagine erano stati fatti uno per volta. Quando ho spiegato che c’era stato un singolo scatto, usando una macchina costruita apposta, sono rimasti meravigliati.

 

Com’è fatta questa macchinetta?
È un parallelepipedo di circa 70 x 60 x 25 con un foro stenopeico. All’interno, invece di avere un singolo foglio di pellicola, c’è una griglia di pellicole polaroid poste una accanto all’altra. Terminato lo scatto, in camera oscura ogni polaroid è fatta passare dentro i rulli per far esplodere i chimici e, quindi, vengono sviluppate. Quando poi sono pronte si ricompongono secondo l’ordine e restituiscono un’immagine unica.

 

In tutto questo sei un autodidatta?
Uno dei miei maestri più grandi è stato Marco Di Vincenzo, che ho tartassato con insistenza. In generale ho studiato molto la fotografia notturna, perché col foro stenopeico i tempi sono lunghi ed è necessario conoscere come si comporta ogni tipo di pellicola.

 

Mi sembra di capire che il prossimo passo è farti direttamente le pellicole, oppure potresti realizzare dei dagherrotipi…
Ho studiato anche quelli, il cyanotype, il Vandyke, so come si fanno ma non li ho ancora sperimentati, col tempo…

 

Usi ancora il digitale?
L’ho rivalutato nell’ultimo periodo perché, comunque, credo che dia un’incredibile libertà creativa, forse anche troppa. L’analogico mi ha dato le regole, una carreggiata da seguire, il fatto di non poter fare tanti scatti mi ha fatto imparare a essere più riflessivo. Poi, però, vedo su Instagram foto bellissime, mi piacciono da pazzi, anche se sono fatte col cellulare. Penso che l’importante della fotografia sia il risultato finale, quello che ci metti dentro.

 

Cosa cerchi di raccontare attraverso le tue fotografie?.
Non cerco di cogliere l’attimo, come insegnava il magico Cartier-Bresson, perché è necessaria la velocità dello scatto, quanto un lasso di tempo, che va dal secondo in poi, e che registra, cerca di mettere a fuoco, ciò che è veramente la vita. Mi spiego meglio: quando fai una fotografia a una persona, in quell’attimo quella persona diventa come un oggetto, una cosa fissa al pari di tutto ciò che è intorno. Al contrario, nelle mie immagini non si vede ciò che si muove, è praticamente invisibile. Se imposto l’esposizione di un minuto, puoi passare davanti alla macchinetta 50 volte e, a meno che non hai una maglietta bianca, di te si vedrà solo un alone, la rappresentazione della vita. Non so se hai mai visto la foto di Andy Warhol del personaggio che si butta dalla finestra, e rimane lì a mezz’aria [Andy Warhol, Suicide (Silver Jumping Man), 1963]. Quella fotografia descrive esattamente il momento in cui la separazione fra ciò che è vivo e ciò che è morto si annulla. La mia linea temporale è più ampia, non è l’attimo.

 

Tra i tuoi progetti ce n’è uno a cui sei più legato?
È un lavoro che ho portato avanti per molto tempo, forse quello più difficile, l’Aperitivo stenopeico: si tratta di un lightbox, spesso solo 1 centimetro e mezzo, con una stampa lenticolare di 1x1m di tre bicchieri fotografati dall’alto che, al muoversi dell’osservatore, si miscelano tra di loro.

 

Quando hai bisogno di ispirazione c’è qualcosa che ti piace fare?
Sono sempre proiettato verso la realizzazione di un’opera, la mia mente è costantemente in azione. Molto spesso, poi, l’ispirazione mi arriva per caso, da una frase, un sito, qualcosa che ho visto in giro…

 

Ci sono siti che vedi spesso?
Ultimamente seguo il blog di un giapponese che testa macchinette fotografiche incredibili. È un superfeticista, il suo blog si chiama Circle Rectangle. Poi uso Flickr dove ho due account, giamps’_polaroid_shots, dove ci sono tutti i test-shot e le foto che faccio per divertirmi, e Giampiero Pagnini dove ci sono tutte le cose che faccio in pellicola, sempre per divertirmi. Un altro sito che seguo è Polanoid, dedicato alla fotografia in polaroid.

 

Riviste?
Zoom e riviste di tatuaggi e skateboard.

 

Libri?
Mi piacciono quelli tipo Educazione di una canaglia, di Eddie Bunker, quelli che parlano della vita in carcere, cose un po’ pulp. L’ultimo che ho letto è Segreto criminale.

 

Tv?
Documentari a manetta, i miei preferiti ultimamente sono Affari di famiglia, in cui nonno, padre e figlio hanno un banco dei pegni a Las Vegas, e Missione restauro, una trasmissione in cui c’è questo tipo che restaura oggetti anni ’50, tipo macchine, frigoriferi, pompe di benzina…

 

Film?
Tutti quelli che escono. Mi piacciono molto i film di Darren Aronofky: Pi greco il teorema del delirio, The fontain – L’albero della vita, The wrestler, Il cigno nero.

 

Musica?
Tutto, anche se mi interessa soprattutto il jazz ma non disdegno i pezzi orecchiabili. L’ultimo che ho comprato è SuperHeavy, l’album di Mick Jagger con Damian Marley, il figlio di Bob, Joss Stone, Dave Stewart, quello degli Euritmics e un indiano, A. R. Rahman. Roba da pigri, quattro personaggi che non centrano assolutamente niente uno con l’altro.

 

Fotografi preferiti?
Per me, il più grande in assoluto è Paolo Gioli, il più grande sperimentatore col foro stenopeico a livello mondiale, ha fatto fori stenopeici con tutto… Ma ci sono anche altri che mi interessano, a livello di fotografia di moda, come David Lachapelle e Terry Richardson.

 

Per fare il tuo tipo di lavoro, quali sono le qualità fondamentali?
Perseveranza, pazienza e conoscenza del materiale che stai usando. In più, un pizzico di creatività.

 

C’è qualcosa che pensi ti manca e su cui vorresti lavorare?
L’aspetto comunicativo, sociale, è per me quello più difficile.

 

Un progetto che ti piacerebbe realizzare in futuro?
Mi piacerebbe organizzare una mostra fotografica collettiva che punti sugli aspetti più sperimentali del mezzo.

 

Invece, una preoccupazione?
Non riuscire più a trovare le pellicole polaroid.

 

Facci il nome di persone che reputi comici creativi guerrieri e che vuoi farci conoscere.
Mi piacerebbe farvi conoscere Marco Di Vincenzo, fotografo.
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LINKS
www.giampieropagnini.com

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foto di Pippo Marino
slideshow su flickr


83 thoughts on “Giampiero Pagnini

        1. Sono lusingatissimo di essere stato citato dal giamps. Se mi parlano di fotografia stenopeica e di polaroid penso solo a lui e l’alchimia che lega la fotografia istantanea, le pinhole e una testa come la sua. Inoltre condividiamo un certo feticismo per alcuni apparecchi fotografici….ma la sua è la vera bottega delle meraviglie, un museo della fotografia in piena regola!!! :)

    1. ciao marco, che bello ricevere un tuo messaggio, quando puoi ci devi raccontare com’è pedalare in francia.
      :-)

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