Giornata stupenda. Il cielo è terso, il sole caldo come d’estate e le montagne si vedono così bene che sembrano appena dietro gli ultimi palazzi della città. La bella giornata arriva inaspettata come un regalo e mentre andiamo a Rosciano, dove ci aspettano Dario ed Elisabetta, rimaniamo stupiti per la neve che copre abbondante e soffice la Maiella. Ancora non lo sappiamo ma il bianco abbagliante farà da sfondo a gran parte della nostra chiacchierata che, ormai è diventata una tradizione, si svolge tra un morso a un panino e un sorso di vino.
A differenza dei precedenti incontri, qui entriamo in un vero e proprio laboratorio. Elisabetta Di Bucchianico e Dario Oggiano, ovvero gli Arago Design, hanno un piccolo studio-negozio nascosto in un angolo semisconosciuto della Pescara vecchia e un laboratorio super attrezzato a Rosciano. Lo hanno chiamato con spirito entusiasta, come tutto quello che fanno, l’Officina delle Invenzioni.
Un nome perfetto per quello che si è dimostrato essere un luogo talmente carico di meraviglie da alimentare la creatività anche di un sasso. All’ingresso troviamo gli ambienti dove gli Arago organizzano i loro workshop di ceramica. Su mensole e dentro vetrinette si possono vedere alcune delle loro creazioni. Tra queste ci ha incuriosito anche un ingegnosissimo sistema di montaggio per scaffalature in tubi di cartone e giunti ricavati da semplici tubi di plastica, un sistema brevettato che si ispira ai metodi di fissaggio delle impalcature in bambù.
Superata una porta si entra nel laboratorio vero e proprio, un antro di ali babà dove su ripiani e scaffalature si trovano migliaia e migliaia di prove e prototipi di oggetti di ceramica nelle più varie tipologie di cottura e smaltatura. è una vera e propria fucina creativa, ogni pezzo, seppur incompleto e magari anche rotto, innesca un meccanismo infinito di idee e suggerimenti. Per non parlare della serie di strumenti, pennelli, calchi, casseforme, dime, calibri, barattoli, seghetti, timer, lampioni raccolti per strada, stampi per parrozzi e budini, tutto riassemblato e pronto a diventare parte di un processo inventivo vorticante e inimmaginabile.
Elisabetta e Dario, oltre che per la simpatia, la disponibilità e l’intelligenza, ci hanno colpito per l’incredibile affiatamento e l’energia creativa che dispiegano in tutto quello che fanno. Le miriadi di prototipi che vediamo ricoprire ogni centimetro quadrato sono solo un decimo di quello che le loro menti sono in grado di produrre durante il giornaliero lavoro di ricerca. Sarà per la presenza dei forni in cui cuocere la terracotta, sarà perché il colore dominante è il bianco, ma il laboratorio mi ricorda una pasticceria, un panificio esploso e ricomposto da un fornaio matto. O forse è perché la materia è così duttile e manipolabile che sembra marzapane. Vorrei addentare tutto quello che vedo intorno, l’odore dolciastro della creta è ovunque e l’istinto è di afferrare ogni cosa per saggiarne la consistenza che qui, magicamente, passa dal morbido del caramello fino al tagliente della selce.
Dario ed Elisabetta, forse perché abituati dal loro lavoro di divulgazione e insegnamento, sono sempre disponibili a spiegare tecniche e procedure: scopro così le differenze tra ceramica, porcellana e terracotta, imparo qual è la temperatura di cottura ottimale, le caratteristiche della ceramica raku, imparo anche i nomi curiosissimi dei diversi smalti. Ci mostrano come realizzano i loro bicchieri fluidi. Sono oggetti dal contorno irregolare che, con le loro morbide imprecisioni, raccontano il loro processo produttivo. La loro forma nasce dai gesti e dalla sequenza di operazioni che consistono nel lasciare colare la terraglia liquida dopo che ha depositato, lungo i bordi dello stampo, il necessario spessore di materia. E come dice Betta: “Per fare questo lavoro ci vuole tanto, tanto colaggio”.
Durante queste spiegazioni, Dario ci racconta un aneddoto: in un mercatino all’aperto, come quelli che mensilmente riempiono le strade del centro storico con bancarelle ricolme di finta anticaglia, ci sono anche Dario e Betta con le loro ceramiche raku, imperfette quanto sofisticate. Fa freddo, è sera e non c’è un’anima in giro, solo qualche venditore che sta sbaraccando. Uno di questi guarda i nostri ceramisti afflitti e infreddoliti, forse più afflitti che infreddoliti, e impietosito decide di dare un suggerimento paterno a Dario. Lo prende sotto braccio e gli dice: “Ti do un consiglio. Ma perché non fate delle cose belle?”. Sono passati quasi dieci anni da allora e Dario e Betta continuano a sperimentare nuove forme e procedimenti che rivelino la bellezza nascosta in una materia unica, sensuale e viva come l’argilla.
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Quando avete scoperto che volevate fare questa vita tra sperimentazione e cotture a 1300°?
Dario – Per quanto riguarda la ceramica è successo la prima volta che ho toccato l’argilla. È stato al liceo quando ho fatto un corso con Cam Lecce, l’unica attività collaterale mai organizzata dal mio liceo scientifico, in cui si realizzavano maschere in cartapesta con la tecnica veneziana… che poi servivano per una rappresentazione teatrale di gestualità corporea. Era il ’92. Non avevo una formazione artistica. Lì ho scoperto che, primo, mi piaceva disegnare, secondo, che riuscivo a controllare il percorso che parte dalla dimensione bidimensionale e porta alla tridimensionalità. Poi, dopo, ho iniziato a studiare architettura a Pescara, dove ho conosciuto Elisabetta e insieme ci siamo trasferiti a Venezia dove ci siamo laureati in disegno industriale.
Un giorno, non so perché, forse eravamo alla ricerca di qualcosa, vediamo un volantino di un corso di un’associazione di Urbino che faceva corsi di ceramica a Pescara tramite Anna Seccia, che è un’artista molto nota qui nel territorio e altrove, e decido di fare il corso intensivo di due giorni. Il corso consisteva nella creazione di piccoli oggetti di argilla, questa materia elementare, e poi nel cuocerli in piccoli forni a gas. È stato sconvolgente vedere che si poteva trasformare in maniera irreversibile una materia così fragile e deperibile, in qualcosa che è irreversibilmente duraturo, funzionale, serio, definitivo, quasi un oggetto adulto. Passare dalla materia plastica, che in qualche modo si può associare alla dimensione infantile, a qualcosa di maturo, compiuto, utile.
Quindi, hai interpretato la cottura della ceramica come un rito di passaggio dall’età infantile a quella adulta…
Elisabetta – Ma anche dalla spensieratezza alla responsabilità, perché prima della cottura l’argilla è un materiale deperibile, basta aggiungere acqua per dissolverlo, e nel momento in cui la cuoci, battezzi l’oggetto e lo rendi eterno. Ci sono reperti di più di 30.000 anni fa, per cui l’oggetto diventa qualcosa che ti sopravvivrà e senti di avere una responsabilità, diventa una testimonianza.
E tu, Elisabetta?
Elisabetta– Io avevo un papà che di lavoro faceva tutt’altro, ma che aveva la passione per la pittura, per l’arte, per la musica… Da quando ero piccola passavamo la domenica intorno a un tavolo a dipingere tutti insieme. Questo spirito di creatività mi è stato inculcato da mio padre. Mio nonno era un falegname, un vero inventore. Io ero piccola e facevo i compiti mentre lui, affianco, costruiva cose. Poi ho conosciuto Dario, ed è proprio questa passione per tutto ciò che è creativo che ci lega. Ormai sono sedici anni che stiamo insieme ed è parte di noi, è proprio il collante. Tanta gente dice “Ma come mai tanti anni insieme, non vi stufate? Tutto il giorno, tutti i giorni, tutti gli anni…”Io penso, invece, che sarebbe un guaio se così non fosse. Le cose che ci uniscono sono talmente importanti, come questo lavoro, che la noia non c’è mai.
Ognuno di voi ha un talento personale che mette a frutto insieme all’altro?
Elisabetta – Abbiamo attitudini diverse, diciamo che ci compensiamo. Alle volte, il mio ruolo rispetto al suo si scambia. Ognuno ha un suo modo di approcciare questo lavoro, però alle volte ci scambiamo i ruoli. Quando ci chiedono chi ha avuto l’idea per un progetto, non riusciamo mai a dire chi sia stato. Succede spessissimo che a me venga un’idea, gliela sottopongo e lui o la stronca (spesso, no, scherzo) o la fa evolvere e viceversa.
Dario – Non c’è dubbio, uno dei problemi principali della nostra identità è la sua anomalia, non solo come coppia ma anche come coppia di designer.
Voi come vi ponete rispetto al design industriale?
Dario – Più vado avanti negli anni e più maturo la convinzione che noi ci siamo in qualche modo “incastrati” nella ceramica come ambito del design a se stante. Io, personalmente, attribuisco alla materia ceramica un valore, un’importanza, superiore a tutti gli altri materiali e alle logiche legate alla progettazione. Quindi, io tenderei a confrontarmi con designer che si occupano di ceramica. Perché è da lì che si può iniziare a riflettere sul progetto, sul prodotto, sul mercato.
Rispetto alla netta distinzione che spesso c’è tra atto ideativo e produzione, mi sembra che per voi le due cose in pratica coincidano.
Elisabetta – Una volta non era così. Se pensi a Castiglioni, Zanuso, che con Giovanni Sacchi, modellista del legno, passavano le giornate in laboratorio per capire se una determinata forma si poteva fare, se un determinato materiale si poteva usare …
Dario – Noi siamo letteralmente immersi nell’argilla fino al collo. Nel nostro caso ci troviamo nell’anomalia di essere anche i produttori e questo ci da sia il controllo totale sia gli stimoli per continuare la ricerca.
Elisabetta – Abbiamo subito la verifica, “controllo” è una parolona… Con la ceramica non puoi mai averlo.
Anche questo è bello: lasciare anche alla materia, all’atto fisico, quell’aleatorietà che rende unico l’oggetto.
Dario – Tutto questo fa parte del nostro atteggiamento nei confronti di questa specifica materia. Solo se si indaga la materia si capiscono le ragioni degli oggetti, dei progetti e, se vogliamo, anche le trasformazioni che gli oggetti hanno subito a partire dalla nascita della società del consumo fino a quella contemporanea.
Vi sentite un po’ arts&crafts?
Dario – Sì, ma non ci opponiamo all’industria, né la temiamo. Per noi tutto parte dalla materia rispetto alla quale è sempre necessario un atteggiamento di umiltà e di consapevolezza. Con la nostra ricerca ci ritroviamo con un bagaglio di informazioni e conoscenze che sono superiori sia a quelle del designer che a quelle dell’artigiano. Il disegnatore industriale a volte si pone in maniera distaccata rispetto al materiale, sta lì davanti al computer a disegnare le sue forme e quasi si disinteressa alle questioni produttive che sono delegate all’industria; al contrario, gli artigiani tradizionali, o almeno così a volte ci è capitato, sono chiusi all’interno di procedure standardizzate e raramente hanno la curiosità di sperimentare novità o di portare al limite i processi. C’è questa strana simmetria all’interno della quale ci poniamo noi con i nostri lavori.
Ci sono dei particolari filoni di ricerca nel vostro lavoro?
Dario – Abbiamo tre linee di ricerca in questo momento, a cui, nella nostra ansia da progettisti, abbiamo dato anche titoli e sottotitoli: Tecniche come prodotto – Un tributo a Bruno Munari – è un processo invertito in cui si parte dall’osservazione di come si comporta la materia e poi le si attribuisce una funzione, senza che ci sia da parte nostra un’imposizione.
Come fa la Pringle che prima fa la patatina e poi chiede a un campione di assaggiatori “Di che sa?” “Sa di panna acida e cipolla”. “Bene, allora queste sono le patatine al gusto panna acida e cipolla” – scherzo…
Dario – La differenza è che noi lo dichiariamo, anche con fierezza, mentre l’industria tende a sorvolare su questi meccanismi. L’altro filone di ricerca lo abbiamo chiamato La terza strada perché nasce dall’incontro tra l’artigiano, il maestro d’arte, e il progetto. Se c’è un atteggiamento positivo, nel senso che nessuno vuole prevaricare sull’altro, cosa rara, possono nascere cose inimmaginabili. Come questo oggetto – ci mostra un vassoio in ceramica che sembra una piccola camera d’aria – che è nato dalle mani di un grande maestro torniante, Claudio Reginato. Quello del torniante è un lavoro di una difficoltà incredibile…
Monica – Non come si vede in Ghost…
Elisabetta – Ghost ha rovinato intere generazioni di tornianti…
Dario – In pratica i tornianti non esistono più a causa di Ghost perché nessuno più riconosce loro il valore che hanno. Tornando a Reginato, è un tecnico molto intelligente perché è sempre al servizio di nuove idee, mette continuamente in discussione le proprie capacità. Con lui abbiamo cercato un profilo, una forma, che, anche se può sembrare semplice come una camera d’aria, è tuttavia impossibile da realizzare industrialmente. Quindi, questa camera d’aria può finalmente rimediare ai danni causati da Ghost.
Per quanto riguarda l’ultimo filone di ricerca, Protagonisti, ritorniamo progettisti e ci imponiamo un progetto, che potrebbe essere realizzato anche industrialmente, ma di cui il 99% è racconto. Gli oggetti che appartengono a questo filone sono il birillume, il cesto nel fuoco e pupilla. Il cesto nel fuoco racconta il primo oggetto in ceramica realizzato dall’uomo. La storia parla di un ragazzino molto curioso, di 25000 anni fa…
Te lo sei inventato tu?
Dario – Me lo sono inventato io… partendo però da dati scientifici e oggettivi. Quella è l’epoca in cui l’uomo impara a gestire il fuoco, comincia ad avere la necessità di cuocere i cibi e allora cosa fa? Probabilmente per riscaldare l’acqua in cui cuocere della carne o delle verdure utilizza dei cesti di fibra vegetale che vengono impermeabilizzati con delle resine. Poi viene messa l’acqua in questo catino primordiale, si riscaldano dei ciottoli di fiume nel fuoco, si buttano nell’acqua per portarla a temperatura e si cuociono i cibi. Qualcuno, ipotizziamo questo bambino, un giorno osserva il comportamento dell’argilla, che è impermeabile, e quindi pensa di spalmare questo materiale all’interno del cesto. La cosa ovviamente non funziona perché l’acqua discioglie l’argilla e alla fine si mangia un pastrocchio con la terra sciolta…
Per caso si chiamava Orzowei?
Dario – Vabbè, insomma c’è il cesto, l’argilla, i ciottoli, il fuoco… Il giorno dopo scopre che quella terra seccata dal calore si è trasformata in qualcosa di nuovo e allora spalma, questa volta con un’intenzione diversa, una quantità maggiore di argilla perché non ha più la sola finalità di impermeabilizzare ma diventa un vero e proprio manufatto e questa potrebbe essere una delle ipotesi dell’origine della terracotta, come testimoniato da reperti su cui ci sono delle impronte che richiamano una matrice vegetale.
Elisabetta – Il cesto fa da vera e propria cassaforma per il vaso mentre la parte più interna dello stampo in fibre vegetali è a perdere, perché brucia durante la cottura.
Sembra un nido.
Dario – C’è anche questo tipo di evocazioni, sono affascinanti, ti fanno capire quale possa essere l’origine del progetto, la semplicità dei gesti che si nascondono dietro un manufatto. Di questo abbiamo bisogno, soprattutto oggi in cui tutto è oggetto di falsificazione.
Abbiamo accennato alla vostra formazione. Pensate sia stata utile?
Elisabetta – Assolutamente sì, tutto è stato utile.
Dario – Però perché non siamo mai stati passivi.
Qual è il progetto a cui tenete in modo particolare?
Dario – Per me, i progetti Protagonisti, perché li vedo come incredibilmente densi. Sono oggetti il cui valore in sé è poca cosa rispetto al mondo che hanno alle spalle.
Elisabetta – Posso solo dire che per me quello più coerente è la Camera d’Aria. Ne sono fiera, dal punto di vista progettuale non cambierei niente. Sono anche affezionata ai primi esperimenti di scultura in ceramica. A differenza di Dario, io non ho iniziato al liceo a lavorare la ceramica ma andavo già all’università e ho iniziato con delle piccole sculture.
E la prima cosa che avete venduto?
Elisabetta – Risale al ’99. Avevamo un laboratorio in via delle Caserme e ci mettevamo a cuocere con i forni (auto-costruiti con i bidoni dell’IP e il bruciatore da asfaltista) in mezzo alla strada, all’aperto. Facevamo dei piattini e delle mattonelle raku incise come materiale dimostrativo e la gente ha iniziato a ordinarcele: “Me ne fai una col segno zodiacale? Me ne fai una con l’iniziale?” …e cose più assurde… così abbiamo iniziato a fare bomboniere, poi oggetti sempre più grandi. Eravamo studenti, guadagnavamo qualcosa con cui ci pagavamo le vacanze.
Se doveste consigliare un sito web?
Dario – Inhabitat.
Elisabetta – In genere vago in rete, ma se devo dirne uno… Etsy, mi piacciono in particolare gli oggetti dei paesi scandinavi.
Una rivista?
Elisabetta – Abitare, mi piace tantissimo, e La Settimana Enigmistica soprattutto se vintage: sai quelle in cui nelle parole crociate fanno domande su Ramona Dell’abate, personaggi ormai spariti…
Dario – Ora sono in fissa su questioni della sostenibilità, la rivista che leggo frequentemente è Casa Energia.
Un libro?
Elisabetta – Il profumo di Suskind e La casa del sonno di Jonathan Coe. Sono libri multisensoriali, in cui c’è una visione trasversale del mondo.
Dario – Più che singoli libri mi vengono in mente autori: Coe, Evangelisti, in particolare l’ultimo, Pennac.
Elisabetta – Stefano Benni!!! Sei anche suo amico… gli hai dedicato la tesi di laurea…
Dario – Era il progetto di un ausilio per disabili, un telecomando conformabile dall’utente. Lui l’ha definito “una scamorza molisana high-tech”.
Molto Stefano Benni. Un programma tv?
Elisabetta – I compianti programmi di Guzzanti e Dandini, Tunnel, Pippo Kennedy Show…
Dario – In genere mi piacciono i documentari, anzi ne approfitto per pubblicizzare un cineforum sulla creatività che abbiamo organizzato presso la biblioteca Di Giampaolo (quella in Piazza Salotto). Iniziamo venerdì 11 febbraio alle 21,00 con La guerra del fuoco di Jean-Jacques Annaud.
Un film?
Elisabetta – Totò, Peppino e… la malafemmina, lo cito continuamente… e The Rocky horror picture show.
Dario – Anch’io cito The Rocky horror picture show e poi Pulp Fiction, Tron…
Una città?
Elisabetta e Dario, all’unisono – Venezia!
Quali sono le qualità che servono nel vostro lavoro? Quali sono quelle che possedete e quelle che vorreste avere?
Elisabetta – Necessarie, passione e pazienza. Che abbiamo, passione e pazienza. Che vorremmo avere, un bel po’ di soldi per poter sperimentare in tranquillità. Aggiungerei anche le doti commerciali, che poi si legano anche alla questione dei soldi.
Non è proprio una qualità ma va bene lo stesso.
Dario – Io direi, che abbiamo, la curiosità, e che ci manca, la sintesi, la capacità di non disperderci e di riuscire a incanalare le energie.
Se poteste vedere nel futuro, cosa vi piacerebbe trovare?
(Silenzio assoluto, tre secondi in cui si sentono solo gli uccellini che cinguettano)
Elisabetta – Poter continuare a fare questo lavoro serenamente, con meno fatica, anche fisica. Goderci un po’ di più il lavoro.
Dario – Poter ottenere il riconoscimento della propria personalità senza che diventi un elemento negativo, discriminante. In tante altre parti del mondo già succede, l’autonomia di pensiero è riconosciuta come un pregio, una risorsa, e non come un difetto.
Elisabetta – Fondamentalmente ci auguriamo un mondo senza Maria de Filippi…
Qual è la cosa che, invece, vi preoccupa di più del futuro?
Elisabetta – Maria de Filippi…
Fate il nome di vostri colleghi o amici che vorreste far conoscere.
Anche se ci ripetiamo, Monica Maggi (qui la sua intervista), Sara e Ilaria Patriarca, e poi Massimo Camplone, Sergio Camplone, Fabrizio Tridenti e Maurizio Righetti.
“Wabi identifica oggi la semplicità rustica, la freschezza o il silenzio, e può essere applicata sia a oggetti naturali che artificiali, o anche l’eleganza non ostentata. Può anche riferirsi a stranezze o difetti generatisi nel processo di costruzione, che aggiungono unicità ed eleganza all’oggetto. Sabi è la bellezza o la serenità che accompagna l’avanzare dell’età, quando la vita degli oggetti e la sua impermanenza sono evidenziati dalla patina e dall’usura o da eventuali visibili riparazioni”
Più leggevo l’intervista, più ripensavo ad un bellissimo libro , “Wabi-sabi per artisti, designer, poeti e filosofi”, letto un anno fa.
E credo che il titolo calzi a pennello per i due protagonisti di oggi, capaci di dar vita a così tanta bellezza :)
OT: io penserei seriamente alla redazione di un libro sui Comici Creativi Guerrieri….
sono d’accordissimo.
guardando i loro oggetti si percepisce una concentrazione e un atteggiamento molto zen, tanto che volevo chiamare il post “Lo zen e l’arte della ceramica”. Hai perfettamente ragione, in particolare i loro oggetti di ceramica raku si adattano benissimo all’idea di wabi-sabi.
bello conoscere gli artisti-artigiani della zona…si pensa sempre che pescara sia priva di stimoli artistici o di chi ci crede..e invece,grazie a voi, si scoprono delle realtà bellissime…
p.s. l’ultima foto è bellissima…sembra 1 quadro!
leggere queste interviste fa bene allo spirito; intuire la passione che innerva i giorni di queste persone è di sprone ad esser creativi -e passionali- noi stessi, nelle cose che facciamo
i bicchieri sgocciolati son proprio belli e anche il vaso nido e la melagrana
Ero un po’ prevenuto verso i bicchieri per il fatto dei bordi irregolari e, invece, c’è un particolare piacere a usarli.
Anche le gocce di vino che scorrono sui lati sembrano far parte del progetto.
bellissimi i bicchieri da guardare e usare, ma anche la bottiglia è stupenda
Che poi secondo me è un po’ come quando bevi il Primitivo di Manduria nei vecchi bicchieri di Grottaglie, magari anche un po’ scheggiati….ha tutto un altro sapore :)
quei bicchieri sono spettacolari…io li ho visti in via Fabrizi nel negozio Patriarca in versione S.Valentino, in scatole trasparenti e avvolti da filo di lana rosso…ma ci sono anche tazze e tazzine, mi sembra…meravigliosi…..li devo avere!!!!
ogni tanto strane alchimie permettono che i singoli elementi si fondano in un unicum potenziato.
dico si alle coppie che condividono tutto.
un appunto però: quand’è che fate cose belle? :-)
nemo propheta in patria
a me piaccioni molto i vasi spiraliformi, mi ricordano le rampe dei parcheggi multipiano.
bravissimi Betta e Dario vi LOVVO.
e questa cosa delle interviste mi piace un sacco… soprattutto i panini con la porchetta!
ma a parte tutto…
la sigla di orzowei è f a n t a s t i c a!
Dovevi metterla a corredo della lettura del post allora :)
maledetti Internet Explorer users… peste vi colga!
(ih ih ih ;) )
mi piace la nuova gallery! ;ò)
Bene! E’ un compromesso, foto paginate e slideshow incorporato, ie8 maledetto sembra essere contento, ora manca solo trasformare le precedenti ccg02 e 01
eh eh…. noooooo peste li colgaaaaaaaa…
Ringrazio tutti per i complimenti e per i pensieri condivisi. Considerate che il nostro Labortorio è un luogo sempre aperto al dialogo creativo… Con l’augurio d’incontrare i simpatici personaggi che si nascondono sotto i nick-names, vi saluto.
Dario
un giorno ci racconterai la storia che sta dietro il Birillume?
Tranquillo… i tempi sono maturi! Tra non molto il segreto di Fatima del Design verrà svelato;)
fantastico, è un vero “oggetto di culto” della religione del design. Ma non avrà a che fare con il 2012, le piramidi maya e giacobbo in tv?
… ed è proprio il 20 dicembre 2012 che permetteremo al mondo intero la lettura del testo occultato nel Birillume!
Grazie a tutti per le belle parole. E’ bello vedere che qualcuno di voi si sia soffermato a commentare più gli oggetti che gli autori.Mi piace pensare che i nostri oggetti parlino per noi. E’ come lasciare un’eredità morale … i genitori ricordati per voce dei figli. In sostanza … per almeno 30.000 anni … non vi libererete di noi…
la prima volta che mi capiterà di passare dalle vostre parti, una scappata a prendere una melagrana mi proverò a farla volentieri
Ti aspettiamo!
meraviglia! tutto l’opposte delle “stoviglie color nostalgia” di Guccini.
brava,bravi.. e creativissimi. vi lascio il sito di un concorso dove potreste essere apprezzatissimi:
http://www.projectroom.biz !