Siamo sempre più interessati al risultato finito, all’architettura fotografata nel suo algido splendore di superfici tirate a lucido, ma ci dimentichiamo di tutto quanto serva ad arrivare al risultato finale.
Eppure il cantiere, con il suo microcosmo vivo e brulicante, a volte è più interessante. Sarà il fascino del non-finito, l’estetica meccanicista e brutale da fabbrica in funzione, l’effetto dinamico dato da gru in movimento, carrelli elevatori, ponteggi che salgono e scendono nel giro di pochi giorni, la sorpresa di scoprire cose nascoste dietro teloni e casseforme.
E poi c’è la vita degli operai, un ecosistema che trova i propri spazi negli intersizi del lavoro, luoghi dedicati alla privacy, ai bisogni, al riposo. Mi hanno sempre incuriosito tutte quelle meta-architetture che vivono all’interno dei cantieri: stanze improvvisate, cucine e mobili costruiti con gli scarti del cantiere, con le tavole delle cassaforme e con getti di calcestruzzo modellati come creta. Sono architetture domestiche e funzionali che vivono come parassiti dentro la costruzione, progetti di design artigianale in cui la creatività, a volte frustrata dal lavoro ripetitivo, trova finalmente spazio.
Sono strategie minime di sopravvivenza che permettono a chi lavora di abitare luoghi in divenire.
Il sottotitolo della foto dovrebbe essere:
“Dalla capanna d’albero dell’abate Laugier al rifugio di pannelli isolanti del muratore anonimo”.