L’architetto Trimble

    In realtà non è chiaro se sia un architetto o un ingegnere, ma secondo me è un architetto.

    C’era un buon ristorante con una piccola tenda sull’ingresso, proprio all’angolo.
    «Che cosa vi interessa vedere soprattutto?» domandò Orrison, quando si furono seduti.
    Trimbe riflettè.«Be’… la nuca delle persone» disse in tono meditativo. «Il loro collo… il modo con il quale il capo è unito al corpo. Mi piacerebbe sentire che cosa stanno dicendo al loro papà quelle due ragazzette. Non esattamente quello che stanno dicendo, ma sapere se le parole galleggiano o affondano, e vedere in che modo chiudono la bocca quando hanno finito di parlare. È una semplice questione di ritmo… Cole Porter tornò negli Stati Uniti, nel 1928, perché sentiva ch’erano sorti nuovi ritmi.»
    Orrison era certo di aver capito, ormai, e con cortese delicatezza non continuò su quel tasto neppure per un millimetro… giungendo al punto di soffocare l’improvviso desiderio di dirgli che v’era un bel concerto alla Carnegie Hall, quella sera.
    «Il peso dei cucchiaini» disse Trimble «così leggeri. Un piccolo mestolo con il manico. Il taglio degli occhi di quel cameriere. Lo conoscevo, un tempo, ma non può ricordarsi di me.»
    Tuttavia, mentre uscivano dal ristorante, proprio quel cameriere fissò Trimble  con un’aria piuttosto interdetta, come se l’avesse quasi riconosciuto. Quando si trovarono nella strada, Orrison rise:
    «Dopo dieci anni è logico che la gente dimentichi.»
    «Oh, ho pranzato qui nel maggio scorso…» Trimble si interruppe bruscamente.
    La faccenda era piuttosto manicomiale, si disse Orrison… e si tramutò a un tratto in un cicerone. «Da qui potete vedere bene e senza ostacoli il Rockfeller Center» disse con animazione, additandolo, «… e il palazzo Chrysler, e il palazzo Armistead, il papà di tutti quelli nuovi.»
    «Il palazzo Armistead» Trimble guardò da quella parte, remissivo. «Già… l’ho progettato io.»
    Orrison crollò allegramente il capo… era abituato ad andare in giro con persone di ogni genere. Ma quella faccenda sull’aver pranzato al ristorante nel maggio scorso…
    Si soffermò accanto alla trabeazione di bronzo sullo spigolo dell’edificio. “Costruito nel 1928” vi si leggeva.
    Trimble annuì.
    «Ma incominciai a ubriacarmi, quell’anno… a ubriacarmi come un porco. E così, non l’avevo mai veduto prima d’oggi.»
    «Oh.» Orrison esitò. «Vi piacerebbe entrare, adesso?»
    «Ci sono entrato… moltissime volte. Ma non l’ho mai visto. E non è ciò che desidero vedere in questo momento. Non ci riuscirei neppure, per ora. Voglio solo vedere come cammina la gente, e quali vestiti, quali cappelli, quali scarpe porta. Voglio vedere gli occhi e le mani della gente. Vi spiacerebbe scambiare una stretta di mano con me?»
    «Niente affatto, signore.»
    «Grazie. Grazie. Siete molto cortese. Può sembrare strano, immagino… ma la gente crederà che ci stiamo salutando. Voglio passeggiare per qualche tempo nella Quinta Avenue, e quindi ci saluteremo davvero. Dite in redazione che sarò di ritorno alle quattro.»
    Orrison lo seguì con lo sguardo, quando si incamminò, aspettandosi quasi di vederlo entrare in un bar.
    Ma nulla in lui lasciava sosspettare, o aveva mai lasciato sospettare, che bevesse.
    “Gesù” si disse. “Ubriaco per dieci anni.”
    Tastò a un tratto il tessuto della giacca, poi allungò la mano e premette il pollice sul granito dell’edificio al suo fianco.

    F. Scott Fitzgerald, Il decennio perduto (1939) in 28 racconti, Mondadori, Milano 1960, pp. 842-844.


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